venerdì 30 aprile 2010
giovedì 29 aprile 2010
Arriva Fabulis, un social network gay basato sui dati di Facebook (da Gayburg)
Si chiama Fabulis ed è un nuovo social network gay indirizzato principalmente al dating fra uomini.
La novità è nel database che "pesca" i suoi dati direttamente da Facebook: una volta entrati sul sito utilizzando il proprio account Facebook, i dati vengono trasportati sul loro sistema, provvedendo alla geo-localizzazione degli utenti e anche al mantenimento degli amici di Facebook che si sono già registrati da loro. E' possibile cercare i gay che abitano nelle vicinanze così come è possibile accedere alle schede degli eventi organizzati in zona.
La piattaforma è in lingua inglese ed dedicata agli utenti di tutto in mondo. Attualmente, però, il numero di italiani iscritti sembra abbastanza basso anche se il sito è online solo da pochi giorni e non è da escludere che il numero di compaesani iscritto crescerà in futuro.
mercoledì 28 aprile 2010
H&M, al via la campagna contro l'Hiv (di AFFARITALIANI.IT)
H&M, al via la campagna contro l'Hiv
Parte il 20 maggio Fashion Against Aids la campagna di H&M per la lotta al virus dell’Hiv. La casa di moda svedese ha annunciato lancio di una collezione dedicata al mondo dei festival e dei concerti estivi, il cui 25% del ricavato sarà devoluto alla raccolta fondi per il problema dell’Aids.
Disponibile nei negozi H&M, la collezione pensata per i giovani, comprende capi di abbigliamento e accessori, ma anche tende e sacchi a pelo. "L’unione tra musica e moda - commenta Ann Sofie Johansson stilista di H&M - rende i concerti luoghi unici ricchi d’ispirazione. Ascoltare i gruppi preferiti, conoscere persone dallo spirito creativo e provenienti da paesi diversi è per me una vera fonte d’ispirazione. È fondamentale far conoscere il problema dell’Aids e dell’Hiv, ecco perché vogliamo dare il nostro contributo alla lotta contro questa malattia donando una parte delle vendite della collezione".
La collezione "Fashion Against Aids" di H&M LE IMMAGINI |
Il look da concerto è un trend globale basato sulla libertà d’espressione e sulle esperienze condivise. La nuova collezione ha uno stile rock con influenze bohemien, etniche e tocchi glamour come gli hot pants in denim o i leggings stampati, abbinati a mini tuniche decorate, a giubbotti in pelle, sandali alla schiava, maxi-bracciali, cinture alte, collane di perline e cuffie con stampe tribali. Per i ragazzi, blazer e giubbotti aderenti, jeans sbiaditi e rattoppati, shorts sfilacciati, gilet decorati, canottiere con disegni cachemire e cappelli da rocker. Fashion Against Aids propone anche tende, sacchi a pelo e sedie pieghevoli per potersi riunire con gli amici.
Grazie alle due edizioni passate la campagna ha raccolti fondi per un totale di oltre 30 mln di corone svedesi, suddivise tra enti benefici: Designers Against Aids, che ha introdotto Fashion Against Aids ad H&M e che promuove l’informazione tra i giovani su Hiv/Aids; YouthAids, attiva ad Haiti e in Russia; l’Mtv Staying Alive Foundation e l’Unfpa (Fondo Nazioni Unite)
Il caso - "Baci rubati", ecco le immagini dello scandalo | Bergamo | Bergamo News
La mostra sul Sentierone non si farà, Bergamo contro l’omofobia però non molla la presa. E pubblica le foto dello “scandalo” sul suo blog. L’obiettivo è dimostrare che non si parla di immagini pornografiche, solo semplici baci. Che però hanno fatto propendere l’amministrazione a non concedere uno spazio pubblico all’aperto e molto frequentato per esporle. Le associazioni che organizzano la mostra, Arcigay e Arcilesbica, sono pronti a trovare un’altra soluzione. Intanto le foto saranno visibili nella sala del mutuo soccorso il 17 maggio in occasione del dibattito pubblico in programma alle 17.30 con Paolo Patanè presidente nazionale Arcigay, Cristina Gramolini segretaria nazionale Arcilesbica, Antonio Rotelli presidente nazionale di avvocatura lgbt – rete lenford e il vicepresidente del PD Ivan Scalfarotto e successivamente presso l´Auditorium di piazza della libertà per la proiezione di Viola di Mare il 17 maggio alle ore 21.
Tutti pazzi per il Qr-code (di Panorama.it)
Anche Facebook sposerà la tecnologia dei codici Qr. Presto, secondo quanto anticipato dal seguitissimo blog TechCrunch. com, potremo raccontare la nostra storia sul social network utilizzando il famoso codice fatto di puntini. Un magico quadratino che, se inquadrato con l’obiettivo del cellulare, prende vita e racconta tutto di sé: sul display arrivano, infatti, video, testi e pagine internet per approfondire l’argomento a cui è legato. Il codice Qr, che è l’abbreviazione inglese di «quick response» (risposta rapida), sulle pagine di Panorama è approdato già venerdì 11 dicembre scorso: primo settimanale a inserirlo negli articoli e a creare il trait d’union fra il mondo cartaceo e quello multimediale di internet. Un esperimento che è stato ripagato con centinaia di migliaia di clic settimanali: e oggi sono svariati i quotidiani e i periodici che lo usano per allargare la propria offerta informativa, proponendo video e gallery ai propri lettori.
Il Qr in Italia sta diventando sempre più visibile nella vita di tutti i giorni. «È stato sfogliando le pagine di Panorama che ho avuto l’idea di inserire il Qr nella nostra nuova linea di abbigliamento intimo» racconta Lincoln Germanetti, amministratore delegato della Ragno. «Il Qr dell’etichetta svela i materiali con cui è confezionato un capo e anche i suggerimenti sul lavaggio». Il quadratino intelligente è arrivato anche nella catena H&M e sta facendo capolino sui prodotti di griffe come Gucci, Ralph Lauren, Louis Vuitton e Roberto Cavalli. In formato gigante i Qr della birra Ceres e dell’automobile Mini sono comparsi sui manifesti pubblicitari che tappezzano i muri delle città italiane.
Sono sui volantini dell’Unieuro, quelli della Costa Crociere e sulle bottiglie di vino. All’ultimo Vinitaly, la più importante rassegna enologica nazionale che si tiene a Verona, le etichette con il Qr sono state protagoniste. I codici sui toscani Baffonero e Poggio alla Guardia, per esempio, rimandano ad alcuni video in cui l’enologo ne svela le caratteristiche. Anche al recente Salone del mobile di Milano il codice a puntini troneggiava su pezzi di design arredamento.
Il Qr risolve il problema anche delle audioguide nei musei: si inquadrano quelli posti accanto alle opere e si ha accesso alla descrizione e alla storia dell’artista. Tra le prime a intuirne le potenzialità c’è la collezione Peggy Guggenheim di Venezia. Dall’arte alla gastronomia il passo è breve: l’Unaprol, consorzio olivicolo, ha adottato i Qr per dare la carta d’identità elettronica dell’olio extravergine d’oliva di qualità, mentre la McDonald’s li piazzerà sulle scatole degli hamburger.
La nuova frontiera è il tatuaggio Qr: inquadrato con il cellulare, conduce a una pagina web personale con foto, video e testi. E se si cambia la fidanzata? Non bisogna più rimuovere il tatuaggio con il laser, basta cambiare il contenuto multimediale associato al Qr.
- guido.castellano
- Lunedì 26 Aprile 2010
lunedì 26 aprile 2010
GB-VATICANO, INCIDENTE DIPLOMATICO PER MEMO IRRIVERENTE
Roma, 26 APR (Il Velino) - Riporta il CORRIERE DELLA SERA: "Nei giorni scorsi al Foreign Office e' arrivata la telefonata di un giornalista del Sunday Telegraph' che chiedeva conto di un memorandum segreto sul Papa e sulla sua prossima visita nel Regno Unito in settembre. Non avrebbero mai voluto, i capi della diplomazia britannica, che quella imbarazzante 'nota a uso interno' in cui si ridicolizzano le posizioni della Chiesa sull'aborto e l'omosessualita', in cui si suggerisce un 'duetto fra il Pontefice e la Regina', in cui si sollecita il lancio del 'condom Benedetto', in cui si chiama il Pontefice a inaugurare una clinica degli aborti e lo si invita a celebrare una unione civile fra gay, in cui si prefigura il lancio di un 'telefono amico per le vittime degli abusi sessuali', insomma che tutta questa roba finisse nelle mani di un giornale. Sapevano bene, al Foreign Office, che all'inizio di marzo un giovane funzionario del ministero, reclutato fra le leve dei laureati a Oxford e Cambridge, si era dilettato nella scrittura di un appunto (titolo 'la visita ideale dai toni provocatori e che questo appunto era circolato nelle stanze del dipartimento. Peggio: il suo autore lo aveva inserito nel dossier ufficiale che la diplomazia sta preparando in avvicinamento al viaggio di Benedetto XVI, proprio il dossier che viene consegnato al governo e alle autorita' ecclesiastiche. Imperdonabile, perche' li' c'erano fra sogni irrealizzabili (il Papa che fa le capriole con alcuni ragazzi per promuovere la vita sana) e proposte non indecenti ('la sponsorizzazione vaticana per un network di ospedali dove si cura l'aids') anche considerazioni (il Papa dovrebbe 'annunciare il licenziamento dei vescovi reticenti sullo scandalo delle violenze ai minori') che avrebbero potuto aprire un fronte di dure polemiche col Vaticano. D'accordo, di satira spicciola si trattava. Ma in certi momenti l'uso disinvolto e leggero delle parole rischia di trasformarsi in un boomerang pericoloso e in un caso politico. A maggior ragione se la satira entra di soppiatto in un fascicolo che dovrebbe essere controllato, vagliato e pesato nelle virgole. Di conseguenza, il Foreign Office avrebbe desiderato stendere un velo pietoso ma una maliziosa manina ha fotocopiato tutto e spedito alla stampa l'incartamento. Poi la telefonata del Sunday Telegraph per il necessario controllo ha chiuso il cerchio. Cosi', sapendo che la brutta figura sarebbe finita sulla prima pagina del giornale, il ministero degli Esteri, e' dovuto correre ai ripari, con passo velocissimo: ieri ha mandato il suo ambasciatore presso la Santa Sede, Francis Campbell, a presentare le sentite scuse e si e' prodigato nel definire 'idiota' il memorandum. Ha rivelato che e' stato cestinato prima che potesse arrivare alla visione del ministro David Miliband e di Downing Street. E ha assicurato di dare 'grande valore agli stretti e produttivi rapporti fra il governo del Regno Unito e la Santa Sede'. Incidente medicato. E finale soft: il giovane e imprudente funzionario ha cambiato aria. Pero', se l'e' cavata con l'assegnazione 'a nuove mansioni'". (red)
domenica 25 aprile 2010
MATRIMONIO OMOSESSUALE, SE IL CODICE CIVILE PREVALE SULLA COSTITUZIONE di Persio Tincani
La vicenda del matrimonio omosessuale in Corte costituzionale si è conclusa nel modo che in molti prevedevano, cioè con un sostanziale rigetto delle questioni di costituzionalità rimesse dalla corte d'appello di Trento e dal tribunale di Venezia. Che la decisione fosse, in questo senso, prevedibile non ha, però, nulla a che vedere con la questione in sé (il matrimonio omosessuale è compatibile con la Costituzione?) e molto a che vedere con il fatto che non dobbiamo fingerci vergini, del tipo di quelle convinte che ci sia sempre un giudice a Berlino. Che la Corte avrebbe respinto le questioni, insomma, eravamo più o meno tutti ragionevolmente certi, tanto i favorevoli al matrimonio omosessuale, ovvero la stragrande maggioranza dei giuristi italiani, quanto la minoranza dei giuristi contrari.
Tutti o quasi tutti, infatti, consideravano assai improbabile che la Corte avrebbe deciso nel senso dell'ammissibilità del matrimonio omosessuale, in quanto la questione è stata caricata (non importa adesso quanto ciò sia stato fatto ad arte) di un significato politico pressoché esclusivo, che ha finito per far passare nelle retrovie il fatto che si tratti, come ogni altra questione posta di fronte alla Consulta, di una faccenda di leggi e di diritto.
Al di là delle argomentazioni sostenute da ciascuno per la tesi della fondatezza o dell'infondatezza dei particolari rilievi di costituzionalità presenti nei due atti con i quali le corti hanno posto la questione di fronte alla Consulta, e ancor di più al di là degli argomenti che ciascuno adduce per l'ammissibilità o per l'inammissibilità del matrimonio omosessuale nel nostro ordinamento, nessuno avrebbe scommesso sul fatto che una parola definitiva sarebbe stata pronunciata dalla Corte in merito.
Ciò che stupisce, quindi, non è che la Corte abbia dichiarato non fondate le questioni di costituzionalità, ma il modo in cui lo ha fatto, cioè con una sentenza, la n.138 2010 (15 aprile), assai criticabile, sia sotto il profilo della tecnica giuridica, sia sotto il profilo della mera coerenza argomentativa. I passaggi argomentativi fallaci o discutibili della sentenza sono molti. Qui mi limito a segnalarne uno.
Uno dei cavalli di battaglia degli oppositori del matrimonio omosessuale è il richiamo alla "natura" presente nell'art. 29 della Costituzione, dove si sancisce che "la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio". Secondo l'interpretazione proposta da costoro, il significato di questo articolo sarebbe quello di sancire sul livello costituzionale la c.d. "famiglia naturale", che sarebbe composta da una moglie, un marito e, possibilmente, da un certo numero di figli.
Va da sé che è sufficiente leggere con un minimo di attenzione, o di onestà, il testo dell'art. 29 per vedere che le cose non stanno così e che non c'è nessuna "famiglia naturale". Si parla, infatti, di "famiglia come società naturale", il che significa, nel linguaggio giuridico, società che le persone formano senza che vi sia necessità di norme giuridiche (diversamente da come accade, per esempio, nel caso delle società per azioni, che non sarebbero concepibili senza le norme giuridiche che le definiscono e che le disciplinano).
Il diritto, insomma, arriva dopo. E la Costituzione, in particolare, arriva per stabilire che i diritti "della famiglia" (in realtà diritti dei singoli che la compongono) sono riconosciuti a patto che questa "società naturale" abbia dato luogo a un matrimonio, secondo le norme del diritto civile. La Corte, infatti, non prende neppure in considerazione la tesi della "famiglia naturale" e ribadisce, a beneficio dei duri, l'ovvietà che il testo della norma costituzionale ha il significato di riconoscere, appunto, che le famiglie esistono anche senza che vi sia una norma giuridica che le definisce.
Fin qui, nulla da dire. Il punto critico, però, viene subito dopo, quando la Corte scrive: «Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi.
Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata». In particolare, dato che «la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea [costituente, N. d. A.], benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta [...] si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel senso tradizionale di detto istituto».
Proviamo a vedere che cosa c'è che non va in questo passaggio, cruciale, della sentenza. Se e è vero che i concetti di "famiglia" e di "matrimonio" non devono intendersi come cristallizzati nell'epoca in cui fu formulato l'art. 29, allora non si capisce per quale motivo l'evoluzione della società e dei costumi, pure richiamata dal testo della sentenza come elemento da tenere in conto per interpretare la norma, non sia qui idonea a ricomprendere nella definizione di "famiglia" che può accedere al "matrimonio" quella composta da due persone dello stesso sesso. La Corte chiarisce, però, che il ruolo dell'interpretazione non può spingersi fino a incidere "sul nucleo della norma", che indicherebbe il matrimonio "nel significato tradizionale".
Qui, come si vede, c'è qualcosa che non quadra. Il fatto che il costituente abbia preso in considerazione il matrimonio tradizionale è, con ogni probabilità, indubbio. Ma, allo stesso tempo, ciò non può essere inteso come un vincolo per l'interprete successivo, almeno non se si ammette, come fa la Corte, che i principi costituzionali sono contraddistinti da una intrinseca duttilità, data dal loro tener conto delle trasformazioni dell'ordinamento e dall'evoluzione "della società e dei costumi".
Questa evidente incongruenza (o le norme sono duttili e seguono l'evoluzione dei costumi o non lo sono) viene, però, corretta da un'immediata precisazione della Corte stessa, che chiarisce come la "duttilità" non possa giungere fino a "incidere sul nucleo della norma". Qual è questo nucleo? L'eterosessualità del matrimonio. E perché? Perché lo stabilisce il codice civile: «I costituenti, elaborando l'art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un'articolata disciplina nell'ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che [...] stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso».
Ora, affermare che il codice civile stabilisca la diversità di sesso degli sposi perché il matrimonio sia valido è perlomeno azzardato. Il codice civile, piuttosto, non esplicita mai la condizione necessaria della diversità di sesso per un valido matrimonio, tant'è che le decisioni giudiziarie esistenti in merito hanno sempre ricavato questo elemento da un lavoro interpretativo.
Ma anche se si volesse sorvolare su questo punto - in realtà il centro dell'intera questione - il ragionamento esplicitato dalla Corte si rivela un controsenso, perché sfocia nella sola conseguenza logica possibile di subordinare la Costituzione al codice civile. Che, per essere precisi, è proprio il contrario di quello che, invece, si fa a rigor di diritto: non interpreto un articolo della Costituzione alla luce del codice civile, ma viceversa.
Se così non fosse, infatti, non si capisce quale sarebbe il ruolo di una corte costituzionale, e quale tipo di censura potrebbe esercitare sul diritto ordinario, se quest'ultimo diviene lo strumento al quale la norma costituzionale deve guardare per ricevere significato.
Il legno storto
" Da un legno storto come quello di cui e' fatto l' uomo , non si può costruire niente di perfettamente dritto "
Immanuel Kant
" Libertà totale per i lupi significa morte certa per gli agnelli "
Isaiah Berlin
Libertà e uguaglianza sono tra gli scopi primari perseguiti dagli esseri umani per secoli. Ma libertà totale per i lupi significa morte certa per gli agnelli; una totale libertà dei potenti, dei capaci, non è compatibile col diritto che anche i deboli e i meno capaci hanno a una vita decente.
L'uguaglianza può esigere la limitazione della libertà di coloro che vorrebbero dominare. Senza un minimo di libertà ogni scelta è esclusa e perciò non c'è possibilità di restare umani nel senso che attribuiamo a questa parola ; ma può essere necessario mettere limiti alla libertà per fare spazio al benessere sociale, per sfamare gli affamati, per vestire gli ignudi, per dare un alloggio ai senza-tetto, per consentire agli altri di essere liberi, per non ostacolare la giustizia e l'equità.
La spontaneità è una meravigliosa qualità umana, ma non è compatibile con quella volontà di organizzare, di pianificare, di calcolare esattamente (che cosa , come e dove) dalla quale può dipendere in larga misura il benessere della società. Tutti sappiamo quali tremende alternative abbia posto il recente passato. Questi conflitti di valori fanno parte dell' essenza di ciò che sono i valori e di ciò che siamo noi stessi. Se qualcuno ci dice che queste contraddizioni saranno risolte in un mondo perfetto in cui tutte le cose buone possono ricomporsi in un'armonia ideale, a questo qualcuno dobbiamo rispondere che i significati che lui attribuisce ai nomi che per noi denotano i valori in contrasto, non sono i nostri significati. Dobbiamo dirgli che un mondo in cui quelli che per noi sono valori incompatibili, cessano di essere in conflitto fra loro, è un mondo assolutamente al di là delle nostre possibilità di comprensione; che i principi coesistenti armoniosamente in "quell'altro mondo" non sono i principi che noi conosciamo nella nostra vita quotidiana e diventano concezioni ignote a noi qui sulla terra. Ed è sulla terra che noi viviamo, ed è qui che dobbiamo credere e agire.
La nozione di un tutto perfetto, la soluzione ultima in cui tutte le cose buone coesistano mi sembra non solo irraggiungibile - è lapalissiano - ma anche un' incoerenza concettuale; io non so che cosa s'intenda per un' armonia di questo genere. Alcuni dei Grandi Beni non possono vivere insieme. Noi siamo condannati a scegliere, e ogni scelta può comportare una perdita irreparabile. Beati coloro che accettano senza discutere la disciplina in cui vivono, che obbediscono liberamente agli ordini dei capi, spirituali o temporali, e ne rispettano appieno la parola come legge inviolabile; o coloro che sono pervenuti, per vie proprie, a convinzioni chiare e incrollabili su ciò che devono fare e ciò che devono essere, senza nutrire il minimo dubbio. Io posso dire soltanto che coloro che riposano su questi comodi letti dogmatici sono vittime di forme di miopia autoindotta e portano paraocchi che possono anche dare l'appagamento, ma non certo la comprensione di ciò che significa essere uomo.
E' vero che alcuni problemi possono essere risolti e alcuni mali curati, nella vita individuale come in quella sociale. Possiamo salvare uomini dalla fame o dalla miseria o dall'ingiustizia, possiamo liberare uomini dalla schiavitù o dalla prigionia, ed è bene che sia così. Tutti gli uomini hanno un senso innato del bene e del male, a qualunque cultura appartengano; ma qualsiasi studio della società mostra che ogni soluzione crea una situazione nuova che a sua volta genera nuovi bisogni e problemi, ossia nuove richieste. I figli hanno ottenuto ciò cui aspiravano i loro genitori e i loro nonni: maggiore libertà, maggiore benessere materiale, una società più giusta; ma i mali vecchi sono dimenticati, e i figli si trovano di fronte a problemi nuovi, generati appunto dalla soluzione di quelli vecchi, e i problemi nuovi, anche se a loro volta possono essere risolti, generano situazioni nuove, e con esse nuove esigenze e così via, per sempre e imprevedibilmente.
I marxisti ci dicono che quando la lotta sia vinta e la storia vera sia cominciata, i nuovi eventuali problemi genereranno le proprie soluzioni, cui si potrà pervenire pacificamente con le forze unite di un'armoniosa società senza classi. A me questo sembra un bell'esempio di ottimismo metafisico che non trova alcun conforto nell'esperienza storica. In una società in cui i medesimi fini sono universalmente accettati, i problemi sono soltanto problemi di mezzi, tutti risolvibili con metodi tecnologici. Questa è una società in cui la vita interiore dell'uomo, l'immaginazione morale, spirituale ed estetica sono ridotte al silenzio. E per questo si dovrebbero distruggere uomini e donne o ridurre in schiavitù intere società?
Le utopie hanno il loro valore, non c'è nulla che allarghi così meravigliosamente gli orizzonti immaginativi delle potenzialità umane , ma come guide al comportamento possono rivelarsi letteralmente fatali. Eraclito aveva ragione, le cose non possono star ferme.La mia conclusione è che l'idea stessa di una soluzione finale non è soltanto impraticabile, ma - se vedo bene, e se tra alcuni valori il conflitto è inevitabile - è anche incoerente. La possibilità di una soluzione finale - anche a voler scordare il senso terribile che questa espressione assunse al tempo di Hitler - si dimostra un' illusione; e assai pericolosa, per giunta. Infatti, se veramente si crede che una tale soluzione sia possibile, è chiaro che nessun prezzo sarebbe troppo alto, pur di ottenerla: arrivare a un'umanità giusta, felice, creativa e armoniosa, arrivarvi una volta per tutte, per sempre, quale costo potrebbe essere troppo alto di fronte a questo traguardo?
Se questa è l'omelette, non c'è limite al numero di uova che si devono rompere. Era questa la fede di Lenin, di Trockij, di Mao e, per quel che ne so, di Pol Pot. Se io so qual è l'unica strada vera per arrivare alla soluzione ultima dei problemi della società, so anche da che parte devo spingere la carovana umana; e poiché voi ignorate quello che io so, a voi non può essere concessa libertà di scelta, nemmeno la minima libertà, se la meta dev'essere raggiunta .
Ma condannare tutti gli uomini del presente alla triste sorte ... di sventurati galeotti che, immersi fino alle ginocchia nel fango, trascinano un barcone che sulla bandiera porta scritto "Il progresso è nel futuro" non è una meta. Una meta infinitamente lontana non è una meta, è soltanto... un inganno; una meta dev'essere più vicina , dev' essere, quanto meno, il salario del bracciante o il piacere del lavoro compiuto. L'unica cosa della quale possiamo essere certi è la realtà del sacrificio, con i morituri e i morti.
Ma l'ideale per cui essi muoiono rimane irrealizzato. Le uova sono rotte, e si diffonde l'abitudine di romperle, ma l'omelette rimane invisibile.
E' chiaro che la nozione di una soluzione armoniosa dei problemi dell'umanità (sia pure in linea di principio), e di conseguenza il concetto stesso di utopia, è incompatibile con l'interpretazione del mondo umano come un terreno di scontro fra volontà, individuali o collettive, perennemente nuove e incessantemente in conflitto. Si tentò da più parti di arginare questa pericolosa corrente. Hegel, e dopo di lui Marx, cercarono di tornare a uno schema storico razionale. Entrambi pensano a una marcia della storia, a un processo unitario che fa ascendere l'umanità dalla barbarie all'organizzazione razionale. Ammettono che la storia è una vicenda di lotte e collisioni, ma alla fine queste saranno risolte e superate. Esse sono dovute alla particolare dialettica propria dell' autosviluppo dello spirito del mondo, o del progresso tecnico, che crea la divisione del lavoro e la guerra di classe; ma queste " contraddizioni " sono in realtà fattori indispensabili al movimento in avanti destinato a culminare in un tutto armonioso, nella risoluzione ultima delle differenze, nell'unità; e non importa se tale movimento sia concepito come un progresso infinito verso una meta trascendente, come in Hegel, o verso una società razionale, concretamente raggiungibile, come in Marx. Per questi pensatori la storia è un dramma in cui i personaggi si affrontano in violente contese. Si susseguono tribolazioni spaventose, collisioni, battaglie, distruzioni, orribili sofferenze; ma la vicenda ha, non può non avere un lieto fine. Per gli utopisti allineati con questa tradizione , il lieto fine è una serenità fuori del tempo.
Da qui le proteste - e le antiutopie - contro il quadro spaventevole di una società priva di attriti in cui le differenze tra gli esseri umani vengono per quanto possibile eliminate, o almeno ridotte, e la multicolore varietà dei temperamenti, delle inclinazioni e degli ideali umani - in una parola, il flusso della vita - è brutalmente costretta all'uniformità, compressa in una camicia di forza sociale e politica che ferisce e mutila e che alla fine stritola gli uomini in nome di una teoria monistica, in omaggio al sogno di un ordine statico, perfetto. E' questo il nocciolo della protesta, contro il dispotismo livellatore, di cui Tocqueville e J.S. Mill sentivano avvicinarsi la minaccia. I nostri tempi, hanno visto lo scontro di due concezioni inconciliabili. Una è quella di coloro che credono nell'esistenza di valori eterni, vincolanti per tutti gli uomini, e sono persuasi che se non tutti gli uomini li hanno riconosciuti o realizzati finora, ciò si debba a una mancanza delle necessarie capacità morali, intellettuali o materiali. E' possibile che questa conoscenza ci sia stata sottratta dalle leggi stesse della storia: secondo un'interpretazione di queste leggi, è stata la guerra di classe a distorcere così gravemente i nostri rapporti reciproci da rendere gli uomini ciechi dinanzi alla verità, col risultato di impedire un'organizzazione razionale della vita umana. Ma i progressi compiuti, hanno già permesso ad alcune persone di scorgere la verità; col maturare dei tempi la soluzione universale apparirà ben chiara alla maggioranza degli uomini; e quel giorno avrà termine la preistoria e comincerà la vera storia dell'umanità. È questa la tesi dei marxisti, e forse di altri profeti, socialisti o comunque ottimisti. Ma essa non è accettata da quanti dichiarano che gli uomini differiscono l'uno dall'altro, e in maniera permanente, quanto a temperamento, doti naturali, mentalità e aspirazioni; che l'uniformità uccide; che gli uomini possono vivere una vita piena solo entro una società dalla struttura aperta, in cui la varietà non sia semplicemente tollerata, bensì approvata e incoraggiata; che il massimo sviluppo delle potenzialità umane può aversi soltanto in società caratterizzate da un ampio spettro di opinioni (ovvero dalla libertà di compiere quelli che J.S. Mill chiamava " esperimenti di vita " ), in cui vi sia libertà di pensiero e di espressione, e in cui le idee e le opinioni cozzino le une contro le altre. Società insomma che ammettano l'attrito, e persino il conflitto, sia pure con regole che li controllino e impediscano la distruzione e la violenza. Per chi abbraccia questo individualismo dai colori romantici, ciò che conta non è la base comune ma le differenze; L'anelito all'unità - alla rigenerazione dell'umanità mediante il ricupero di un'innocenza e di un'armonia perdute, col ritorno da un'esistenza frammentata alla totalità onnicomprensiva - è un' illusione infantile e pericolosa: soffocare ogni diversità, e persino ogni conflitto, nell' interesse dell' uniformità, significa soffocare la vita stessa.
Queste due dottrine non sono compatibili fra loro. Le divide un antagonismo di vecchia data. Nella loro veste moderna esse dominano l'umanità di oggi e suscitano entrambe resistenze e conflitti: l'organizzazione industriale contro i diritti umani; le regole burocratiche contro il " farsi i fatti propri "; il buon governo contro l'autogoverno; la sicurezza contro la libertà. Accade talvolta che una rivendicazione si trasformi nel suo opposto: istanze volte a una democrazia partecipativa si risolvono nell'oppressione delle minoranze; provvedimenti destinati a introdurre l'uguaglianza sociale schiacciano l'autodeterminazione e soffocano il genio individuale. Accanto a queste collisioni di valori permane un sogno pericoloso e antichissimo: esiste, deve esistere - ed è possibile trovarla - la soluzione definitiva per tutti i mali umani; vi si può arrivare; sicuramente verrà, o attraverso una rivoluzione o con mezzi pacifici; e allora tutti gli uomini, o almeno la stragrande maggioranza, saranno virtuosi e felici, saggi, buoni e liberi.. E se è dato realizzare una condizione del genere, una condizione che, una volta instaurata, durerà in eterno, quale uomo sano di mente potrebbe voler ritornare alle miserie dell' umanità vagante nel deserto? Se questo è possibile, allora sicuramente nessun prezzo è troppo alto; nessun ammontare di oppressione e crudeltà, di repressione e coercizione è troppo grande se costituisce il tributo indispensabile, insostituibile, per arrivare alla salvezza finale di tutti gli uomini. Questa convinzione si traduce in un' ampia licenza di infliggere sofferenze ai propri simili.
Ma se uno è convinto che questa dottrina è illusoria, non foss' altro perché alcuni valori ultimi possono essere incompatibili tra loro, e che la nozione stessa di un mondo ideale in cui essi si trovino riconciliati è un' impossibilità concettuale (e non meramente pratica), allora, forse, il meglio che si possa fare, è tentare di promuovere una qualche specie di equilibrio, fatalmente instabile, tra le diverse aspirazioni di gruppi differenti di esseri umani. Ciò servirà quanto meno a impedire che cerchino di sterminarsi, ma anche, nella misura del possibile, a evitare che si facciano reciprocamente del male; e si potrà poi tentare di promuovere fra loro il massimo di solidarietà e di comprensione, sia pure con poche probabilità di arrivare mai a una comprensione totale.
Ma questo non è certo un "programma esaltante", ma un semplice sermone liberale che raccomanda un apparato inteso a impedire agli esseri umani di farsi troppo danno l' un l' altro, concedendo a ciascun gruppo uno spazio sufficiente alla realizzazione dei suoi specifici, particolari fini, senza interferire eccessivamente con i fini altrui ; non è un appassionato grido di battaglia capace di muovere gli uomini al sacrificio, al martirio e a imprese eroiche. Eppure, se fosse adottato, questo programma potrebbe ancora impedire la reciproca distruzione e, alla fine, salvare il mondo. Immanuel Kant, un uomo lontanissimo dall'irrazionalismo, osservò una volta che "dal legno storto dell'umanità, non si è mai cavata una cosa dritta" .
E' questo il motivo per cui nessuna soluzione perfetta è possibile nelle cose umane - non già soltanto in pratica, ma in linea di principio - e ogni serio tentativo di metterla in atto è destinato con ogni probabilità a produrre sofferenza, delusione e fallimento.
da "La ricerca dell' ideale "
Isaiah Berlin (1988)
sabato 24 aprile 2010
Il bacio gay che imbarazza Bollywood - LASTAMPA.it
La risposta indiana a Brokeback Mountain sfida i pregiudizi
Per l’industria del cinema locale, però, “Dunno Y” è una sorta di affronto. «Nonostante fossi preparato girare le prime scene è stato imbarazzante», dice Kapil Sharma, fratello del regista e attore principale. Il poster promozionale, linkatissimo sui forum, mostra due ragazzi nudi che si abbracciano: un sasso scagliato contro il perbenismo e l’ipocrisia, dopo che per anni Bollywood ha censurato anche i baci eterosessuali, tagliando le scene più pruriginose ed edulcorando la realtà fino a trasformarla in cartone animato.
Il film “Love Sex aur Dhokha” (Amore, sesso e tradimento), uscito la scorsa primavera, è stato il primo a infrangere il muro del sesso sul grande schermo, scatenando discussioni accesissime e rischiando il boicottaggio. «Prima il sesso stava dietro porte chiuse, adesso le cose stanno cambiando», dice il regista Dibakar Banerjee. Fino a dieci anni fa, quando una coppietta appartata stava per baciarsi sul grande schermo, l'immagine si sarebbe dissolta su due fiori che si sfiorano o su degli uccellini che si scambiano effusioni con il becco. Non è più così. «La rivoluzione sessuale è stata ignorata per mezzo secolo- si sfoga sul Guardian il critico Anupama Chopra-. Finalmente i giovani registi l’hanno affrontata, e gli spettatori, soprattutto i ragazzi, si sono fatti trovare pronti». L’omosessualità, però, continua a rimanere un terreno scivoloso nonostante dal luglio scorso non sia più considerata un reato. L’Alta Corte infatti ha sconfessato la legge ereditata dagli ex colonizzatori britannici dichiarandola «lesiva dei diritti umani».
Il regista di “Dunno Y” Sanjay Sharma è consapevole delle difficoltà ma ha fiducia nei giovani: «Penso che il pubblico ormai sia sufficientemente maturo - dice alla Bbc - e per il momento non ho subito pressioni politiche». La censura a Bollywood è severissima. Su 248 film prodotti a Mumbai nel 2009, solo 93 sono stati dichiarati visibili a tutti; 92 sono stati vietati ai minori di 12 anni e 63 sono stati dichiarati solo per adulti. “Dunno Y”, in uscita all’inzio di maggio, ha il compito di scompaginare definitivamente le carte. «Io non ho paura- dice Sharma-. Vado avanti per la mia strada».
Il PD difende la chiesa cattolica contro le accuse di copertura dei preti criminali
E' paradossale che il PD accusi il movimento gay, che non è mai riuscito a difendere dalla discriminazione, di discriminare a sua volta un altro gruppo.
E' evidente che il PD usi due pesi e due misure e si accontenti di utilizzare un po' di demagogia per difendere l'indifendibile e per tentare goffamente di ergersi a paladini della povera chiesa cattolica sbertucciata in tutto il mondo per scandali che gridano vendetta.
Nessuno ha mai detto che tutti i preti sono pedofili, il problema piuttosto, e il PD lo comprende benissimo anche se fa orecchie da mercante (!!!), è che la chiesa cattolica ha per decenni predicato un moralismo becero esattamente nello stesso momento in cui proteggeva dei criminali cresciuti e pasciuti al suo interno.
CHIESA BOLOGNA. PD GELA I GAY: MANIFESTAZIONE INTOLLERANTE
ACETO: OFFENDE TUTTI PER QUALCUNO CHE SBAGLIA, SERVE MODERAZIONE
(DIRE) Bologna, 24 apr. - Il Pd difende la Chiesa di Bologna,
presa di mira oggi dalla manifestazione di Arcigay, Arcilesbica e
Rete laica nel centro di Bologna contro le affermazioni del
cardinale Bertone in seguito allo scandalo pedofilia. Di
"Intolleranza laicista", parla Pietro Aceto, responsabile
Comunicazione del Pd. "In tutte le istituzioni 'larghe'- sostiene
il democratico- puo' esserci qualcuno che sbaglia, pero'
estendere a tutta la comunita' ecclesiale le accuse di Franco
Grillini e' un errore gigantesco e grossolano".
Per Aceto infatti "bisogna avere moderazione nell'esprimere
concetti che offendono la dignita' di persone oneste,
caritatevoli e ben disposte ad aiutare il prossimo". Inoltre
"ingiusto e denigratorio" e' inserire anche il leader nazionale
del Pd Pierluigi Bersani, accusato dai manifestanti di avere
espresso solidarita' a senso unico per Bertone, nel novero dei
"baciapile" del Vaticano. "Bersani si e' sempre dimostrato
spirito aperto, laico e rispettoso di tutte le appartenenze",
sottolinea Aceto.
SI TENTA UN ACCORDO SU UN TESTO CONTRO L'OMOFOBIA
mercoledì 21 aprile 2010
Ilaria. Il successo delle donne dovrebbe essere un interesse comune della società (da donnealvolante.it)
Mi chiamo Ilaria Volpe, ho 23 anni e sono nata e cresciuta a Milano, finché non ho iniziato a girare per l’Europa. Negli anni del liceo sono stata rappresentante degli studenti, e per un anno ho collaborato all’edizione milanese del Corriere della Sera, con una mia rubrica settimanale su giovani e scuola. In seguito, durante l’Università, sono stata Consigliere di Zona 2 a Milano, eletta in una lista civica e poi, dopo la nascita del Partito Democratico, nel gruppo del PD. A chi vedendomi diciannovenne pareva strano chiamarmi ‘Consigliere’ e riteneva più adeguato rivolgersi a me come Ilaria, o ‘la ragazza’, ho risposto con un lavoro accurato ed un atteggiamento a volte sfrontato: mentre gli altri erano politici in se io, giovane e donna, dovevo dimostrare di esserlo.
Nel frattempo mi sono laureata, in corso e con lode, in Scienze internazionali ed istituzioni europee, tanto per assecondare le statistiche su donne e risultati scolastici, ed ho fatto un Erasmus in Belgio, a Louvain-la-Neuve. Tutto ciò ovviamente tra una festa e l’altra, un amore e l’altro, un lavoretto e l’altro, una campagna elettorale e l’altra, e sempre in compagnia dei miei amici.
Adesso sto terminando un Master Joint Degree tra Spagna, Francia, Polonia ed Italia in “Diritto e politica dell’integrazione europea”. L’anno scorso ho fatto un semestre a Barcellona e uno a Montpellier, e quest’anno uno a Stettino ed uno a Bruxelles. Per concludere i miei studi sto facendo uno Stage alla Lobby Europea delle Donne a Bruxelles, dove seguo l’evoluzione delle politiche socioeconomiche europee, e aiuto a spingere affinché queste perseguano l’uguaglianza tra uomini e donne.
Faccio parte di quella generazione che, a pelle, non crede tanto alla differenza tra uomini e donne. Cresciuta in una famiglia fantastica e progressista a “pane e autostima”, con buoni voti e tanti successi, pensavo bastasse esser forti e determinate per essere considerata alla pari di un maschio. Non accetterei mai un compagno che non volesse condividere con me gioie e dolori dell’essere genitori, o che non accettasse di rivedere le sue priorità per farle combaciare con le mie, e viceversa. Insomma, un mio pari. Come se bastasse a un roseo futuro da professionista, madre e moglie. Poi, ripensandoci, mi sono accorta che mi stavo accollando un peso che non dovrebbe essere mio. Che il fatto di sentirsi in dovere di essere forti e determinate non era giusto, e che se fossi stata un uomo non avrei introiettato tale pressione. Non siamo noi donne a dovere essere forti abbastanza da riuscire a farci strada, nel lavoro e nella vita. Semplicemente, l’Italia non ha futuro se non sfrutta il talento femminile nel mondo del lavoro, o se non aumenta il tasso di natalità. Senza figli non ci sono pensioni, senza lavoratrici non c’è aumento di produttività; non male per temi trattati come “cose di donne”. Il mio successo come lavoratrice o come madre non dovrebbe essere una mia preoccupazione, ma un interesse comune della società, senza la quale il nostro paese sta affondando. Tra pochi mesi avrò in mano un diploma di master francese, uno spagnolo, uno polacco e uno italiano. Lavoro in quattro lingue. Per la Fondazione Cariplo che insieme all’Università di Milano mi ha dato una borsa di studio sono “capitale umano d’eccellenza”. Dati alla mano, progettare un futuro in Italia in questo momento per una giovane donna neolaureata è una scelta infausta. Vorrei lavorare, ma c’è il precariato e gli stage non pagati. Vorrei continuare a vivere da sola, ma gli affitti sono impossibili. Vorrei fare un dottorato, ma l’università e la ricerca sono lasciate senza fondi. Vorrei pensare ad una famiglia, ma senza decidere tra un figlio ed un lavoro appagante.
Ecco, quello che chiedo alla politica è di pensare non solo allo ieri o all’oggi, ma soprattutto al domani e dopodomani. Io, mal che vada me ne resto all’estero. Ma l’Italia non può farcela così. Serve una assunzione di responsabilità collettiva: conciliazione di vita privata e professionale, strutture di assistenza all’infanzia e alla terza età, congedi di maternità e paternità, orari flessibili. Sostegno dell’università, del mercato degli affitti, del trasposto pubblico, lotta al precariato. E in generale attenzione, in tutte le politiche, al fatto che la società è fatta di donne e di uomini, e che quindi ogni politica pubblica va indirizzata ad entrambi i generi, con le loro specificità.
Ecco, io vorrei tornare in Italia, ma non posso, se credo in me stessa e nel mio valore. Anche se l’Italia è il mio paese. Chiedo alla politica che i miei successi di studentessa, lavoratrice, donna, e spero in futuro madre siano i successi dell’Italia, e non nonostante l’Italia.
sabato 17 aprile 2010
venerdì 16 aprile 2010
La Corte Costituzionale e la repubblica delle banane.
E così le motivazioni della Corte ci hanno illuminato. Gli omosessuali hanno diritto di vivere in coppia con tutti i diritti delle coppie sposate, ma non debbono chiedere il matrimonio. Non è contro la Costituzione una norma che impedisce il matrimonio gay, perché il parlamento ha facoltà di decidere di questa materia, ma allo stesso tempo non afferma nemmeno che la Costituzione vieti l'accesso al matrimonio per i cittadini dello stesso sesso. Capisco che siamo abituati oramai a tutto e vedere dei timidi segnali positivi ci riempia di speranza, però il dato politico è un altro. In Italia l'anarchia è oramai così diffusa che neppure il più alto organo giurisdizionale sente la responsabilità di ottemperare ai propri doveri. Lo Stato è allo sfascio e la distinzione tra i poteri praticamente non esiste più. Il potere legislativo è confuso totalmente con quello esecutivo, il potere giudiziario è schizofrenico e a volte si sostituisce alla politica, a volte abdica in favore della politica alle sue prerogative. In tutto questo caos da repubblica delle banane i furbi si ingrassano e le istituzioni perdono ogni autorevolezza e autorità. Se fossimo in uno stato normale si parlerebbe chiaramente di disegno eversivo, perché di eversione si tratta quando si mette lo Stato di diritto in ginocchio, invece noi sbuffiamo e vediamo il bicchiere mezzo pieno.
Matrimonio gay: le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale
SENTENZA N. 138
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis del codice civile, promossi dal Tribunale di Venezia con ordinanza del 3 aprile 2009 e dalla Corte d’appello di Trento con ordinanza del 29 luglio 2009, iscritte ai nn. 177 e 248 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 26 e 41, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti gli atti di costituzione di G. M. ed altro, di E. O. ed altri nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, dell’Associazione radicale Certi Diritti, e di C. M. ed altri (fuori termine);
udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
uditi gli avvocati Alessandro Giadrossi per l’Associazione radicale Certi Diritti e per M. G. ed altro, Ileana Alesso e Massimo Clara per l’Associazione radicale Certi Diritti, per G. M. ed altro e per C. M. ed altri, Vittorio Angiolini, Vincenzo Zeno-Zencovich e Marilisa D’Amico per l’Associazione radicale Certi Diritti, per G. M. ed altro e per E. O. ed altri e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Il Tribunale di Venezia in composizione collegiale, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, «nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso».
Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciare in un giudizio promosso dai signori G. M. ed S. G., entrambi di sesso maschile, in opposizione, ai sensi dell’art. 98 di detto codice, avverso l’atto del 3 luglio 2008, col quale l’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia ha rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio dagli stessi richiesta.
Il funzionario, infatti, ha ritenuto illegittima la pubblicazione, perché in contrasto con la normativa vigente, costituzionale e ordinaria, in quanto l’istituto del matrimonio nell’ordinamento giuridico italiano «è inequivocabilmente incentrato sulla diversità di sesso dei coniugi», come dovrebbe desumersi dall’insieme delle disposizioni che disciplinano l’istituto medesimo, del quale tale diversità «costituisce presupposto indispensabile, requisito fondamentale, a tal punto che l’ipotesi contraria, relativa a persone dello stesso sesso, è giuridicamente inesistente e certamente estranea alla definizione del matrimonio, almeno secondo l’insieme delle normative tuttora vigenti», anche secondo l’orientamento della giurisprudenza. L’atto oggetto dell’opposizione cita anche un parere del Ministero dell’interno, in data 28 luglio 2004, nel quale si legge che «in merito alla possibilità di trascrivere un atto di matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, si precisa che in Italia tale atto non è trascrivibile in quanto nel nostro ordinamento non è previsto il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso in quanto contrario all’ordine pubblico»; affermazione ribadita con circolare dello stesso Ministero in data 18 ottobre 2007.
Il Tribunale veneziano richiama gli argomenti svolti dai ricorrenti, i quali hanno rilevato che nel nostro ordinamento non esisterebbe una nozione di matrimonio, né un divieto espresso di matrimonio tra persone dello stesso sesso. Inoltre, i citati atti del Ministero dell’interno si riferirebbero all’ordine pubblico internazionale e non a quello pubblico interno e, comunque, sarebbero contrari alla Costituzione e alla Carta di Nizza, sicché andrebbero disapplicati. In ogni caso, l’interpretazione letterale delle norme del codice civile, posta a fondamento del diniego delle pubblicazioni, sarebbe in contrasto con la Costituzione italiana ed, in particolare, con gli artt. 2, 3, 10, secondo comma, 13 e 29 di questa.
Il rimettente prosegue osservando che, sulla base di tali argomenti, gli istanti hanno chiesto al Tribunale, in via principale, di ordinare all’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia di procedere alla pubblicazione del matrimonio; in via subordinata, di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis cod. civ., in riferimento agli artt. 2, 3, 10, secondo comma, 13 e 29 Cost.
Tanto premesso, il Tribunale di Venezia rileva che, nell’ordinamento vigente, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è né previsto né vietato espressamente. È certo, tuttavia, che sia il legislatore del 1942, sia quello riformatore del 1975 non si sono posti la questione del matrimonio omosessuale, all’epoca ancora non dibattuta, almeno in Italia.
Peraltro, «pur non esistendo una norma definitoria espressa, l’istituto del matrimonio, così come previsto nell’attuale ordinamento italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso diverso. Se è vero che il codice civile non indica espressamente la differenza di sesso tra i requisiti per contrarre matrimonio, diverse sue norme, fra cui quelle menzionate nel ricorso e sospettate d’incostituzionalità, si riferiscono al marito e alla moglie come “attori” della celebrazione (artt. 107 e 108), protagonisti del rapporto coniugale (artt. 143 e ss.) e autori della generazione (artt. 231 e ss.)».
Ad avviso del Tribunale, proprio per il chiaro tenore delle norme indicate non è possibile, allo stato delle disposizioni vigenti, operare un’estensione dell’istituto del matrimonio anche a persone dello stesso sesso. Si tratterebbe di una forzatura non consentita ai giudici (diversi da quello costituzionale), «a fronte di una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna».
D’altra parte, prosegue il rimettente, «non si può ignorare il rapido trasformarsi della società e dei costumi avvenuto negli ultimi decenni, nel corso dei quali si è assistito al superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia normale, tradizionale e al contestuale sorgere spontaneo di forme diverse, seppur minoritarie, di convivenza, che chiedono protezione, si ispirano al modello tradizionale e, come quello, mirano ad essere considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche all’evoluzione della cultura e della civiltà, chiedono tutela, imponendo un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità dell’interpretazione tradizionale con i principi costituzionali».
Secondo il Giudice di Venezia, il primo parametro è quello di cui all’art. 2 Cost., nella parte in cui riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, non soltanto nella sua sfera individuale ma anche, e forse soprattutto, nella sua sfera sociale, cioè «nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità», delle quali la famiglia deve essere considerata la prima e fondamentale espressione.
Infatti, la famiglia è la formazione sociale primaria nella quale si esplica la personalità dell’individuo e vengono quindi tutelati i suoi diritti inviolabili, conferendogli uno status (quello di persona coniugata), che assurge a segno caratteristico all’interno della società e che attribuisce un insieme di diritti e di doveri del tutto peculiari e non sostituibili mediante l’esercizio dell’autonomia negoziale.
Il diritto di sposarsi configura un diritto fondamentale della persona, riconosciuto a livello sopranazionale (artt. 12 e 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, artt. 8 e 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 – Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 – artt. 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), nonché in ambito nazionale (art. 2 Cost.). La libertà di sposarsi o di non sposarsi, e di scegliere il coniuge autonomamente, riguarda la sfera dell’autonomia e dell’individualità, sicché si risolve in una scelta sulla quale lo Stato non può interferire, se non sussistono interessi prevalenti incompatibili, nella fattispecie non ravvisabili.
L’unico importante diritto, in relazione al quale un contrasto si potrebbe ipotizzare, sarebbe quello, spettante ai figli, di crescere in un ambiente familiare idoneo, diritto corrispondente anche ad un interesse sociale. Tale interesse, tuttavia, potrebbe incidere soltanto sul diritto delle coppie omosessuali coniugate di avere figli adottivi. Si tratterebbe, però, di un diritto distinto rispetto a quello di contrarre matrimonio, tanto che alcuni ordinamenti, pur introducendo il matrimonio tra omosessuali, hanno escluso il diritto di adozione. In ogni caso, la disciplina di tale istituto nell’ordinamento italiano, ponendo l’accento sulla necessità di valutare l’interesse del minore adottando, rimette al giudice ogni decisione al riguardo.
Il rimettente, poi, prende in esame l’art. 3 Cost., rilevando che, poiché il diritto di contrarre matrimonio è un momento essenziale di espressione della dignità umana, esso deve essere garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali, come l’orientamento sessuale, con conseguente obbligo per lo Stato d’intervenire in caso d’impedimenti al relativo esercizio.
Pertanto, se la finalità perseguita dall’art. 3 Cost. è quella di vietare irragionevoli disparità di trattamento, la norma implicita che esclude gli omosessuali dal diritto di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso, così seguendo il proprio orientamento sessuale (non patologico né illegale), non ha alcuna giustificazione razionale, soprattutto se posta a confronto con l’analoga situazione delle persone transessuali che, ottenuta la rettifica dell’attribuzione del sesso ai sensi della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), possono contrarre matrimonio con persone del proprio sesso di nascita (il Tribunale ricorda che la conformità a Costituzione della citata normativa è stata riconosciuta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 165 del 1985).
Secondo il rimettente, le affermazioni contenute in tale pronuncia ben potrebbero ritenersi applicabili anche agli omosessuali. Comunque, la legge n. 164 del 1982 avrebbe «profondamente mutato i connotati dell’istituto del matrimonio civile, consentendone la celebrazione tra soggetti dello stesso sesso biologico ed incapaci di procreare, valorizzando così l’orientamento psicosessuale della persona». In questo quadro, non sarebbe giustificabile la discriminazione tra omosessuali che non vogliono effettuare alcun intervento chirurgico di adattamento, ai quali il matrimonio è precluso, ed i transessuali che sono ammessi al matrimonio pur appartenendo allo stesso sesso biologico ed essendo incapaci di procreare.
Le opinioni contrarie al riconoscimento della libertà matrimoniale tra persone dello stesso sesso sulla base di ragioni etiche, legate alla tradizione o alla natura, non potrebbero essere condivise, sia per le radicali trasformazioni intervenute nei costumi familiari, sia perché si tratterebbe di tesi pericolose, in passato utilizzate per difendere gravi discriminazioni poi riconosciute illegittime, come le disuguaglianze tra i coniugi nel diritto matrimoniale italiano anteriore alla riforma o le discriminazioni in danno delle donne.
Del resto, «per i diritti degli omosessuali, così come per quelli dei transessuali, vi sono fortissime spinte, provenienti dal contesto europeo e sopranazionale, a superare le discriminazioni di ogni tipo, compresa quella che impedisce di formalizzare le unioni affettive».
Il Tribunale di Venezia, in relazione all’art. 29, primo comma, Cost., osserva che il significato della norma non è quello di riconoscere il fondamento della famiglia in una sorta di “diritto naturale”, bensì quello di affermare la preesistenza e l’autonomia della famiglia rispetto allo Stato, così imponendo dei limiti al potere del legislatore statale, come emerge dagli atti relativi al dibattito svolto in seno all’Assemblea costituente, nel ricordo degli abusi in precedenza compiuti a difesa di una certa tipologia di famiglia.
Peraltro, che la tutela della tradizione non rientri nelle finalità dell’art. 29 Cost. e che famiglia e matrimonio siano istituti aperti alle trasformazioni, sarebbe dimostrato dall’evoluzione che ne ha interessato la disciplina dal 1948 ad oggi. Il rimettente procede ad una ricognizione della normativa in materia, ricorda gli interventi di questa Corte a tutela dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, nonché la riforma attuata con la legge 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia), e rileva che il significato costituzionale di famiglia, lungi dall’essere ancorato ad una conformazione tipica ed inalterabile, si è al contrario dimostrato permeabile ai mutamenti sociali, con le relative ripercussioni sul regime giuridico familiare.
Sarebbero prive di fondamento, quindi, le tesi che giustificano l’implicito divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso ricorrendo ad argomenti correlati alla capacità procreativa della coppia ed alla tutela della procreazione. Al riguardo, sarebbe sufficiente sottolineare che la Costituzione e il diritto civile non prevedono la capacità di avere figli come condizione per contrarre matrimonio, ovvero l’assenza di tale capacità come condizione d’invalidità o causa di scioglimento del matrimonio, sicché quest’ultimo e la filiazione sarebbero istituti nettamente distinti.
Una volta escluso che il trattamento differenziato delle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali possa trovare fondamento nel dettato dell’art. 29 Cost., tale norma, nel momento in cui attribuisce tutela costituzionale alla famiglia legittima, non costituirebbe un ostacolo al riconoscimento giuridico del matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma anzi dovrebbe assurgere ad ulteriore parametro in base al quale valutare la costituzionalità del divieto.
Infine, il rimettente richiama l’art. 117, primo comma, Cost., che impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Richiama al riguardo, quali norme interposte, gli artt. 8, 12 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). In particolare, con riferimento all’art. 8, la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe accolto una nozione di “vita privata” e di tutela dell’identità personale non limitata alla sfera individuale bensì estesa alla vita di relazione, arrivando a configurare un dovere di positivo intervento degli Stati per rimediare alle lacune suscettibili d’impedire la piena realizzazione personale. È citata la sentenza Goodwin c. Regno Unito in data 17 luglio 2002, con la quale la Corte di Strasburgo ha dichiarato contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del transessuale con persona del suo stesso sesso originario.
Il Tribunale di Venezia pone l’accento sul fatto che anche la Carta di Nizza sancisce i diritti al rispetto della vita privata e familiare (art. 7), a sposarsi e a costituire una famiglia (art. 9), a non essere discriminati (art. 21), collocandoli tra i diritti fondamentali dell’Unione Europea. Non andrebbero trascurati, poi, gli atti delle Istituzioni europee, che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al matrimonio di coppie omosessuali, ovvero al riconoscimento di istituti giuridici equivalenti, atti che rappresentano, a prescindere dal loro valore giuridico, una presa di posizione a favore del riconoscimento del diritto al matrimonio, o comunque alla unificazione legislativa, nell’ambito degli Stati membri, della disciplina dettata per la famiglia legittima, da estendere alle unioni omosessuali (tali atti sono richiamati nell’ordinanza).
Da ultimo, il rimettente rileva che, negli ordinamenti di molte nazioni con civiltà giuridica affine a quella italiana, si va delineando una nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali. Infatti, in alcuni Stati (Olanda, Belgio, Spagna) il divieto di sposare persone dello stesso sesso è stato rimosso, mentre altri Paesi prevedono istituti riservati alle unioni omosessuali con disciplina analoga a quella del matrimonio, a volte con esclusione delle disposizioni relative alla potestà sui figli e all’adozione. Fra i Paesi che ancora non hanno introdotto il matrimonio o forme di tutela paramatrimoniale, molti prevedono forme di registrazione pubblica delle famiglie di fatto, comprese quelle omosessuali.
Sulla base delle considerazioni esposte, il Tribunale veneziano perviene al convincimento sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, che inoltre giudica rilevante perché l’applicazione delle norme censurate non è superabile nel percorso logico-giuridico da compiere per pervenire alla decisione della causa.
2. - I signori G. M. e S. G., si sono costituiti nel giudizio di legittimità costituzionale, con ampia memoria depositata il 20 luglio 2009.
Dopo avere esposto i fatti da cui la vicenda prende le mosse ed aver riportato il contenuto dell’ordinanza di rimessione, le parti private, sottolineata la rilevanza della questione proposta, osservano che il rimettente ha riconosciuto un dato incontrovertibile, cioè che nel vigente ordinamento non sussiste alcun divieto espresso che impedisca a due persone dello stesso sesso di contrarre matrimonio. La necessaria eterosessualità dello stesso nascerebbe da una tradizione interpretativa, sorta in un contesto sociale del tutto diverso dall’attuale e tramandata in modo tralaticio, anche per i riflessi della disciplina canonistica dell’istituto sul sistema civilistico.
La dimensione storica del fenomeno, tuttavia, non potrebbe essere di ostacolo ad una rivisitazione della fattispecie, come hanno fatto altre Corti costituzionali straniere. Né si potrebbe dedurre che l’eterosessualità sia un carattere indefettibile dell’istituto matrimoniale interpretando l’art. 29 Cost. a partire dalla lettera del codice civile vigente, perché quell’articolo non costituzionalizza i caratteri dell’istituto matrimoniale previsti dalla legge ordinaria o emergenti dalla sua costante interpretazione. Il codice civile sarebbe oggetto e non parametro del giudizio e, in ogni caso, «non potrebbe divenire cifra per leggere il dato costituzionale. Sarebbe, infatti, una petizione di principio affermare che il codice non viola il diritto a contrarre matrimonio ex art. 29 poiché tale disposizione, alla luce del codice stesso, prevede l’unione solo fra persone di sesso diverso. Con un aprioristico rinvio per presupposizione, infatti, si attuerebbe una sovversione della gerarchia delle fonti».
Pertanto, alla luce del principio personalistico che pervade l’intera Carta costituzionale, bisognerebbe individuare il significato delle parole “matrimonio” e “famiglia”, utilizzate nel citato art. 29. Detta norma privilegia la famiglia fondata sul matrimonio. Ad avviso degli esponenti, da ciò deriva che, se nella nostra società anche due persone dello stesso sesso possono formare una famiglia, escluderle dal vincolo matrimoniale non soltanto crea una discriminazione priva di qualsiasi razionalità, ma fa sì che migliaia di cittadini si vedano negate dallo Stato quelle tutele che altrimenti spetterebbero loro in virtù della norma costituzionale.
La fattispecie non sarebbe assimilabile alle unioni di fatto eterosessuali, che trovano altrove copertura costituzionale (art. 2 Cost.), perché nelle unioni di fatto vi è una chiara scelta delle parti di non rendere giuridico il progetto di vita che lega i conviventi, mentre per le coppie formate da persone dello stesso sesso tale libertà non sussiste nella misura in cui non possono scegliere se sposarsi oppure no.
Richiamata la nozione di famiglia come “società naturale”, contenuta nell’ordinanza di rimessione, gli esponenti osservano che l’interesse protetto dall’art. 29 Cost. è, in primo luogo, il diritto all’autodeterminazione dell’individuo, al riparo da indebite ingerenze dello Stato, tutte le volte in cui una persona decida di realizzare se stessa in una relazione familiare. Per le persone omosessuali tale diritto risulterebbe, attualmente, del tutto conculcato.
Non sarebbe possibile sostenere che i costituenti abbiano eletto l’eterosessualità a caratteristica indefettibile della famiglia, i cui diritti sono riconosciuti e garantiti dall’art. 29 Cost., tanto da escludere dall’ambito applicativo di tale norma le coppie formate da persone dello stesso sesso. Per le parti private sarebbe certo che il fenomeno sussistesse anche ai tempi della Assemblea costituente, ma, in quanto socialmente non rilevante, non poteva allora essere preso in alcuna considerazione. Ciò vorrebbe dire che non si è optato per la famiglia eterosessuale a scapito di quella omosessuale, riservando a questa una minore dignità sociale e giuridica.
Tale stato di cose, però, non potrebbe impedire una rilettura del sistema, in considerazione delle mutate condizioni sociali e giuridiche, stante la rilevanza, sotto questo profilo, del diritto comunitario, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., e soprattutto dei principi supremi dell’ordinamento, quali l’eguaglianza (e quindi la non discriminazione) e la tutela dei diritti fondamentali.
Le parti private proseguono osservando che il diritto vivente connota l’istituto matrimoniale di una caratteristica (l’eterosessualità), che l’art. 29 Cost. non suggerisce affatto, così impedendo alle persone omosessuali di godere pienamente della loro cittadinanza e del diritto a realizzare se stesse affettivamente e socialmente nell’ambito della famiglia legittima.
Né sarebbe possibile che “società naturale” sia intesa come luogo della procreazione, in quanto il matrimonio civile non sarebbe più istituzionalmente orientato a tale finalità. Dal 1975 l’impotenza non costituisce causa d’invalidità del matrimonio, se non quando sia materia di errore in cui sia incorso l’altro coniuge (art. 122 cod. civ.). Inoltre, possono contrarre matrimonio anche le persone che, avendo cambiato sesso, sono inidonee alla generazione e quelle che, a causa dell’età, tale attitudine più non hanno.
In definitiva, la procreazione sarebbe soltanto un elemento eventuale nel rapporto coniugale e ciò dimostrerebbe quanto lontano sia il concetto di famiglia da accogliere nell’ambito dell’art. 29 Cost. rispetto a quello della tradizione giudaico-cristiana. Il matrimonio sarebbe, senza dubbio, l’unione di due esistenze, i cui fini fondamentali coincidono con i diritti e i doveri che i coniugi assumono al momento della celebrazione in base all’art. 143 cod. civ., fini ai quali è estranea la prospettiva, soltanto eventuale, della procreazione, altrimenti si dovrebbe considerare impossibile la celebrazione di un matrimonio tutte le volte in cui sia naturalisticamente impossibile per i nubendi procreare.
Gli esponenti passano, poi, a trattare del diritto al matrimonio come diritto fondamentale della persona, richiamando (tra l’altro) la giurisprudenza di questa Corte, che ha declinato il diritto stesso sia sotto il profilo della libertà di contrarre il matrimonio con la persona prescelta (sentenza n. 445 del 2002), sia sotto quello della libertà di non sposarsi e di unirsi in altro modo (sentenza n. 166 del 1998), e rilevando che i cittadini omosessuali non possono godere di queste due libertà.
Dopo avere illustrato gli aspetti e le finalità di quel diritto, nonché le prospettive correlate al suo esercizio anche nel quadro della tutela delle minoranze discriminate, essi pongono l’accento sull’esigenza che il citato diritto fondamentale sia garantito a tutti senza alcuna distinzione, anche nel caso in cui un cittadino si trovi in quella particolare condizione personale che è l’omosessualità. E ciò non in astratto, secondo la tesi di quanti ritengono che sarebbe rimessa al legislatore ordinario la scelta sull’ammissione o meno al matrimonio delle coppie formate da persone dello stesso sesso. In presenza di un diritto fondamentale spetta alla Corte costituzionale, o al giudice di merito in via interpretativa, rimuovere gli ostacoli che ne impediscono il godimento a tutti, tanto più se si considera che non si sta parlando di un divieto normativo bensì di una mera prassi interpretativa.
Nel caso in esame, «realizzarsi pienamente come persona significa poter vivere fino in fondo il proprio orientamento sessuale, scegliendo come partner di vita, all’interno di una relazione giuridica qualificata qual è il matrimonio, una persona del proprio sesso».
Pertanto l’interpretazione che esclude le coppie formate da persone dello stesso sesso dal matrimonio, ad avviso degli esponenti, costituisce un limite irragionevole all’esercizio della libertà personale, disconoscendo la capacità della persona di scegliere ciò che è meglio per sé in una dimensione relazionale.
Le parti private richiamano, poi, la tesi secondo cui l’art. 29 Cost. escluderebbe la riconoscibilità giuridica delle coppie omosessuali, anche soltanto attraverso un istituto alternativo al matrimonio, e ne sostengono l’infondatezza, rilevando che il detto articolo non può essere interpretato in modo da violare uno dei principii fondamentali dell’ordinamento costituzionale, ossia il principio di eguaglianza. Dopo avere argomentato diffusamente sul punto, anche in ordine ai profili economici dell’estensione del matrimonio alle coppie omosessuali, gli esponenti osservano che nella nostra società, non più caratterizzata da un’omogeneità sul piano culturale, il principio di eguaglianza deve assumere una dimensione nuova, volta a favorire il pluralismo e l’inclusione sociale. Con tale concezione contrasta un uso del diritto che abbia come effetto di escludere un soggetto dal godimento di un diritto o libertà fondamentale in virtù di una sua condizione personale. E ciò senza considerare la contemporanea violazione dell’art. 2 Cost., perché in tal modo s’impedisce l’esercizio del diritto alla piena realizzazione di sé.
Inoltre, le parti private pongono l’accento sulla normativa comunitaria e internazionale già richiamata nell’ordinanza di rimessione.
Esse, poi, criticano la tesi secondo cui un giudice, fosse anche la Corte costituzionale, non potrebbe spingersi fino al punto di accogliere la richiesta dei ricorrenti diretta ad ottenere le pubblicazioni matrimoniali sul presupposto del riconoscimento del loro diritto a sposarsi.
Ribadito che si è in presenza di una prassi interpretativa, derivante da elementi testuali della legislazione ordinaria, risalente a ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione, e che tale prassi contrasta (per quanto detto in precedenza) con norme e principi supremi di rango costituzionale, gli esponenti sostengono che, nel caso in esame, non si tratta di creare un istituto nuovo, o di affermare l’esistenza di un nuovo diritto (operazioni precluse al potere giudiziario), perché il diritto al matrimonio sussiste già ed ha chiari connotati, ma, pur essendo un diritto fondamentale, ne viene concesso il godimento soltanto alle persone eterosessuali.
Infine, sono richiamati alcuni passaggi argomentativi di Corti straniere, che si sono occupate della tenuta costituzionale, nei rispettivi sistemi, del divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso.
In chiusura, si chiede a questa Corte di acquisire un’adeguata base informativa sul numero di coppie formate da persone dello stesso sesso, che vivono sul territorio italiano, e sull’impatto dell’attuale prassi interpretativa, che esclude le persone dello stesso sesso dal matrimonio, sul loro benessere psicosociale.
3. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato, ha spiegato intervento nel presente giudizio di legittimità costituzionale con atto depositato il 21 luglio 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, manifestamente infondata.
La difesa dello Stato prende le mosse dal rilievo che la normativa riguardante l’istituto del matrimonio, sia quella prevista dal diritto civile, sia quella di rango costituzionale, si riferisce senz’altro all’unione fra persone di sesso diverso.
Il requisito della diversità del sesso, che si ricava direttamente dall’art. 107 cod. civ., nonché da altre numerose disposizioni dello stesso codice, è tradizionalmente e costantemente annoverato dalla dottrina e dalla giurisprudenza tra i requisiti indispensabili per l’esistenza del matrimonio. Infatti, ad avviso dell’Avvocatura generale, l’istituto del matrimonio nel nostro ordinamento si configura come un istituto pubblicistico diretto a disciplinare determinati effetti, che il legislatore tutela come diretta conseguenza di un rapporto di convivenza tra persone di sesso diverso (filiazione, diritti successori, legge in tema di adozione).
Il richiamo all’art. 2 Cost., operato dal rimettente, non sarebbe decisivo né conferente.
Tale disposto, per costante interpretazione di questa Corte, «deve essere ricollegato alle norme costituzionali concernenti singoli diritti e garanzie fondamentali, quando meno nel senso che non esistono altri diritti fondamentali inviolabili che non siano necessariamente conseguenti a quelli costituzionalmente previsti» (sentenza n. 98 del 1979), tra i quali non sarebbe compresa la pretesa azionata dai ricorrenti nel giudizio a quo.
La collocazione dell’art. 2 Cost. fra i “principi fondamentali” ed invece la collocazione dell’art. 29 nel titolo II tra i “rapporti etico-sociali” costituirebbero non soltanto l’argomentazione testuale, ma anche l’argomentazione più significativa per escludere la fondatezza dell’assunto contenuto nell’ordinanza di rimessione, non essendo ovviamente vietata nel nostro ordinamento la convivenza tra persone dello stesso sesso. Infatti, la dottrina più recente tende a ricondurre la tutela delle coppie omosessuali nell’ambito della tutela delle coppie di fatto.
Non sussisterebbe alcuna violazione del principio di eguaglianza, di cui all’art. 3 Cost., perché questo impone un uguale trattamento per situazioni uguali e trattamento differenziato per situazioni di fatto difformi.
La difesa dello Stato osserva che la dottrina, nel commentare il citato art. 3, ha ritenuto il divieto di discriminazione in base al sesso «in qualche misura meno rigido rispetto ad altri», sia sul piano della correlazione di alcune distinzioni ad obiettive differenze tra i sessi, sia sul piano normativo, nella misura in cui in Costituzione si rinvengono norme idonee a giustificare, entro certi limiti, distinzioni fondate sul sesso, «in particolare, gli articoli 29, 37 e 51».
La dottrina avrebbe anche ritenuto il richiamo al principio di ragionevolezza, espresso nel medesimo art. 3 Cost., non pertinente nel caso in esame, perché un trattamento normativo differenziato potrebbe ritenersi “ragionevole”, in quanto diretto a realizzare altri e prevalenti valori costituzionali.
Neppure sarebbe pertinente il riferimento alla giurisprudenza in tema di illegittime discriminazioni subite in precedenza dalle persone transessuali, perché il problema della “identità di sesso biologico” in quell’ipotesi avrebbe assunto una rilevanza diversa.
Quanto all’art. 29 Cost., detta norma, stabilendo che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», delinea una “relazione biunivoca” tra le nozioni in essa richiamate e, altresì, «vincola il legislatore a tenere distinte la disciplina dell’istituzione familiare da quelle eventualmente dedicate a qualsiasi altro tipo di formazione sociale, ancorché avente caratteri analoghi».
Ad avviso dell’Avvocatura, in esito al dibattito sviluppatosi nell’Assemblea costituente in sede di elaborazione dell’art. 29, si sarebbero delineate due ricostruzioni circa il significato di tale norma.
La prima sottolinea il carattere pregiuridico dell’istituto familiare, identificando un solo modello univoco e stabile; la seconda attribuisce all’art. 29 un contenuto mutevole con l’evoluzione dei costumi sociali. Parte della dottrina, invece, ha superato tale dicotomia, ritenendo che la norma faccia riferimento ad un modello di famiglia che, per quanto suscettibile di sviluppi e cambiamenti, sia però caratterizzato “da un nucleo duro”, che trova «il suo contenuto minimo e imprescindibile nell’elemento della diversità di sesso fra i coniugi» e perciò mantiene il significato originario fissato nella Carta, senza mutarlo in maniera differente e distante dall’iniziale formulazione.
Infine, non sarebbe ravvisabile contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
La difesa dello Stato premette che l’ordinamento comunitario non ha legiferato in materia matrimoniale, ma si è limitato in varie risoluzioni ad indicare criteri e principi, lasciando ai singoli Paesi membri la facoltà di adeguamento delle legislazioni nazionali.
La libertà lasciata ai legislatori europei ha dato luogo, perciò, a molteplici forme di tutela delle coppie omosessuali.
Non vi sarebbe contrasto con gli artt. 7, 9 e 21 della Carta di Nizza, parte integrante del Trattato di Lisbona, in quanto proprio l’art. 9, che riconosce il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia, rinvia alla legge nazionale per la determinazione delle condizioni per l’esercizio di tale diritto.
Per quel che riguarda gli obblighi internazionali e, in particolare, il rispetto della CEDU, la citata normativa del codice civile italiano non appare in contrasto con gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione) della CEDU, dal momento che proprio l’art. 12 non solo riafferma che l’istituto del matrimonio riguarda persone di sesso diverso, ma rinvia alle leggi nazionali per la determinazione delle condizioni per l’esercizio del relativo diritto.
In definitiva, al di là del carattere eterogeneo dei modelli di riconoscimento adottati dagli Stati europei, l’elemento che li accomuna sarebbe la “centralità del legislatore” nel processo d’inclusione delle coppie omosessuali nell’ambito degli effetti legali delle discipline di tutela.
Peraltro, un intervento della Corte costituzionale di tipo manipolativo non sarebbe realizzabile attraverso un’operazione lessicale di mera sostituzione delle parole “marito” e “moglie”, con la parola “coniugi”, perché in realtà si tratterebbe di operare un nuovo disegno del tessuto normativo codicistico, alla luce di una norma costituzionale che proprio ad esso rimanda; e tale compito sarebbe necessariamente riservato al legislatore.
4. - La Corte di appello di Trento, con l’altra ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ., nella parte in cui, complessivamente valutati, non consentono agli individui di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso.
La Corte territoriale premette di essere stata adita in sede di reclamo, ai sensi dell’art. 739 del codice di procedura civile, proposto da due coppie (ciascuna formata da persone dello stesso sesso) avverso un decreto del Tribunale di Trento, che aveva respinto l’opposizione formulata dai reclamanti nei confronti di un provvedimento dell’ufficiale di stato civile del Comune di Trento. Con tale provvedimento il detto funzionario aveva rifiutato di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste dagli opponenti, non ritenendo ammissibile nell’ordinamento italiano il matrimonio tra persone del medesimo sesso; e il rifiuto era stato giudicato legittimo dal Tribunale.
La Corte rimettente, dopo aver ritenuto infondata la domanda principale diretta ad ottenere l’ordine all’ufficiale di stato civile di procedere alle pubblicazioni, esamina la questione di legittimità costituzionale, in via subordinata proposta dai reclamanti.
Dopo aver ricordato l’ordinanza del Tribunale di Venezia, la rimettente osserva che, rispetto all’epoca nella quale sono state emanate le norme disciplinanti il matrimonio, «si è verificata un’inarrestabile trasformazione della società e dei costumi che ha portato al superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia tradizionale ed al contestuale spontaneo sorgere di forme diverse di convivenza che chiedono (talora a gran voce) di essere tutelate e disciplinate».
In questo quadro, ad avviso della Corte trentina è necessario chiedersi se l’istituto del matrimonio, nell’attuale disciplina, sia o meno in contrasto con i principii costituzionali.
L’interrogativo si porrebbe, in particolare, rispetto al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. In sostanza, poiché il diritto di contrarre matrimonio costituisce «un momento essenziale di espressione della dignità umana (garantito costituzionalmente dall’art. 2 Cost. e, a livello sopranazionale, dagli artt. 12 e 16 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, dagli artt. 8 e 12 CEDU e dagli artt. 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), vi è da chiedersi se sia legittimo impedire quello tra omosessuali ovvero se, invece, esso debba essere garantito a tutti, senza discriminazioni derivanti dal sesso o dalle condizioni personali (quali l’orientamento sessuale), con conseguente obbligo dello Stato di intervenire in caso di impedimenti all’esercizio di esso».
Sarebbe innegabile che la questione sia rilevante ai fini della decisione, perché la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme disciplinanti il matrimonio, nella parte in cui non consentono il matrimonio tra omosessuali, influirebbe in modo determinante sull’esito del giudizio a quo.
Inoltre, non si potrebbe sostenere che la questione sia manifestamente infondata, perché «quanto sopra osservato non può essere superato da un’interpretazione secondo cui il matrimonio deve e può essere consentito solo a coppie eterosessuali a ragione della sua funzione sociale, principio secondo taluni ricavabile dall’art. 29 Cost. (norma che riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio). Detto principio, infatti, si limita a riconoscere alla famiglia un suo ruolo naturale, nel senso che da un lato lo Stato non può prescindere da tale realtà sociale a cui tende per natura la stragrande maggioranza degli individui e, dall’altro, afferma che la famiglia è fondata sul matrimonio; ma certo esso non giunge ad escludere la tutela della famiglia di fatto (che prescinde dal matrimonio) o ad affermare la funzione della famiglia come granaio dello Stato».
Ad avviso della rimettente, «l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale, molto ben ricordata dal Tribunale di Venezia nell’ordinanza sopra citata, restituisce oggi un concetto di famiglia che porta ad escludere che in forza dell’art. 29 Cost. possa darsi rilevanza solo alla famiglia legittima funzionalmente finalizzata alla capacità procreativa dei coniugi sicché, semmai, è anche in relazione a tale norma di rango costituzionale che la questione sollevata deve essere giudicata meritevole di attenzione da parte del Giudice delle leggi».
5. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale con atto depositato il 3 novembre 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata. La difesa dello Stato svolge argomenti analoghi a quelli esposti nel giudizio promosso con l’ordinanza del Tribunale di Venezia.
6. - Si sono altresì costituite, con atto depositato il 2 novembre 2009, le parti private nel giudizio promosso con l’ordinanza della Corte di appello di Trento, signori O. E. e L. L. e signore Z. E. e O. M., dichiarando di ritenere ammissibile e fondata la questione sollevata e chiedendone l’accoglimento.
7. - In quest’ultimo giudizio ha spiegato intervento, con atto depositato il 3 novembre 2009, l’Associazione radicale Certi Diritti, in persona del segretario e legale rappresentante pro-tempore, che, richiamando gli obiettivi statutari dell’Associazione medesima, ha dichiarato di ritenersi legittimata ad intervenire e di ritenere ammissibili e fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Trento, riservandosi ogni ulteriore opportuna illustrazione delle proprie difese e il deposito di ogni eventuale documentazione.
8.- Con atto depositato il 25 febbraio 2010 nel giudizio di legittimità costituzionale promosso con la citata ordinanza della Corte di appello di Trento, hanno spiegato intervento i signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z.
Gli intervenienti, tutti di sesso maschile, premettono che, con tre atti in pari data 5 novembre 2009, comunicati con lettere inviate l’11 novembre 2009, l’ufficiale di stato civile del Comune di Milano ha reso noto il rifiuto di procedere alle pubblicazioni di matrimonio da loro richieste.
Essi osservano che l’interesse proprio e diretto ad intervenire è sorto in data successiva alla scadenza degli ordinari termini del giudizio costituzionale e per questo motivo l’atto di intervento è depositato nel termine di venti giorni antecedenti la data dell’udienza fissata per la discussione. Considerato che si tratta di circostanza temporale indipendente dalla volontà dei ricorrenti e comprovata da documenti formati dalla pubblica amministrazione, richiamato per quanto occorra in via analogica il disposto dell’art. 153, secondo comma, cod. proc. civ., essi affermano che l’intervento deve essere ritenuto tempestivo e chiedono, comunque, di essere rimessi in termini.
Inoltre, essi affermano che l’intervento deve essere ritenuto ammissibile, alla luce delle innovazioni introdotte dalla Corte costituzionale, che ha espresso negli ultimi anni un orientamento progressivamente favorevole all’ammissibilità, caso per caso, «soprattutto laddove soggetti singoli o associazioni vantassero un rapporto diretto con la questione di legittimità costituzionale in un processo che ha ad oggetto un interesse pubblico: quello alla decisione sulla legittimità costituzionale della legge».
In questo quadro, l’interesse diretto, specifico e concreto degli intervenienti alla pronuncia di questa Corte non potrebbe essere posto in dubbio, perché la declaratoria di fondatezza della questione consentirebbe di ottenere le pubblicazioni di matrimonio già richieste e rifiutate dall’ufficiale di stato civile in base al rilievo dell’inammissibilità, nel vigente ordinamento, di matrimoni tra persone dello stesso sesso.
Nel merito, gli intervenienti svolgono considerazioni analoghe a quelle già in precedenza richiamate a sostegno della fondatezza della questione.
9. - In prossimità dell’udienza di discussione le parti private nei due giudizi di legittimità costituzionale, la Presidenza del Consiglio dei Ministri e l’Associazione radicale Certi Diritti hanno depositato memorie a sostegno delle rispettive richieste.
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale di Venezia, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 29 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, «nella parte in cui, sistematicamente interpretati, non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso».
Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciare in un giudizio promosso da due persone di sesso maschile, in opposizione, ai sensi dell’art. 98 di detto codice, avverso l’atto col quale l’ufficiale di stato civile del Comune di Venezia ha rifiutato di procedere alla pubblicazione di matrimonio dagli stessi richiesta, ritenendola in contrasto con la normativa vigente, costituzionale e ordinaria, in quanto l’istituto del matrimonio, nell’ordinamento giuridico italiano, sarebbe incentrato sulla diversità di sesso tra i coniugi.
Il Tribunale veneziano riferisce gli argomenti svolti dai ricorrenti, i quali hanno rilevato che, nel vigente ordinamento, non esisterebbe una nozione di matrimonio, né un suo divieto espresso tra persone dello stesso sesso. Essi si richiamano alla Costituzione e alla Carta di Nizza, rimarcando che l’interpretazione letterale delle norme del codice civile, posta a fondamento del diniego delle pubblicazioni, sarebbe costituzionalmente illegittima con particolare riguardo agli artt. 2, 3, 10, secondo comma, e 29 Cost.
Tanto premesso, il rimettente rileva che, nell’ordinamento italiano, il matrimonio tra persone dello stesso sesso non è previsto né vietato in modo espresso. Peraltro, pure in assenza di una norma definitoria, «l’istituto del matrimonio, così come previsto nell’attuale ordinamento italiano, si riferisce indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso diverso». Ad avviso del Tribunale, il chiaro tenore delle disposizioni del codice, regolatrici dell’istituto in questione, non consentirebbe di estenderlo anche a persone dello stesso sesso. Si tratterebbe di una forzatura non consentita ai giudici (diversi da quello costituzionale), «a fronte di una consolidata e ultramillenaria nozione di matrimonio come unione di un uomo e di una donna».
D’altra parte, secondo il Tribunale non si possono ignorare le rapide trasformazioni della società e dei costumi, il superamento del monopolio detenuto dal modello di famiglia tradizionale, la nascita spontanea di forme diverse (seppur minoritarie) di convivenza, che chiedono protezione, si ispirano al modello tradizionale e, come quello, mirano ad essere considerate e disciplinate. Nuovi bisogni, legati anche all’evoluzione della cultura e della civiltà, chiedono tutela, imponendo un’attenta meditazione sulla persistente compatibilità dell’interpretazione tradizionale con i princìpi costituzionali.
Ciò posto, il Tribunale di Venezia, prendendo le mosse dal rilievo che il diritto di sposarsi costituisce un diritto fondamentale della persona, riconosciuto a livello sopranazionale ed in ambito nazionale (art. 2 Cost.), illustra le censure riferite ai diversi parametri costituzionali evocati, pervenendo al convincimento sulla non manifesta infondatezza della questione promossa, che inoltre giudica rilevante perché l’applicazione delle norme censurate non è superabile nel percorso logico-giuridico da compiere al fine di pervenire alla decisione della causa.
2. - La Corte di appello di Trento, con l’altra ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ., nella parte in cui, complessivamente valutati, non consentono agli individui di contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso.
La Corte territoriale premette di essere stata adita in sede di reclamo, ai sensi dell’articolo 739 del codice di procedura civile, proposto da due coppie (ciascuna formata da persone dello stesso sesso) avverso il decreto del Tribunale di Trento, che aveva respinto l’opposizione formulata dai reclamanti nei confronti di un provvedimento dell’ufficiale di stato civile del Comune di Trento. Con tale provvedimento il detto funzionario aveva rifiutato di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste dagli opponenti, non ritenendo ammissibile nell’ordinamento italiano il matrimonio tra persone del medesimo sesso; ed il rifiuto era stato giudicato legittimo dal Tribunale.
La Corte rimettente, dopo aver ritenuto infondata la domanda principale diretta ad ottenere l’ordine all’ufficiale di stato civile di procedere alle pubblicazioni, passa all’esame della questione di legittimità costituzionale, in via subordinata proposta dai reclamanti, svolgendo, in relazione alle censure prospettate, considerazioni analoghe a quelle esposte dal Tribunale di Venezia.
3. - I due giudizi di legittimità costituzionale, avendo ad oggetto la medesima questione, vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.
4. - In via preliminare, deve essere confermata l’ordinanza, adottata nel corso dell’udienza pubblica ed allegata alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati inammissibili gli interventi dell’Associazione radicale Certi Diritti e dei signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z. Ciò in applicazione del consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, richiamato nell’ordinanza, secondo cui non sono ammissibili gli interventi, nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, di soggetti che non siano parti nel giudizio a quo, né siano titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in causa e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura, avuto altresì riguardo al rilievo che l’ammissibilità dell’intervento ad opera di un terzo, titolare di un interesse soltanto analogo a quello dedotto nel giudizio principale, contrasterebbe con il carattere incidentale del detto giudizio di legittimità.
5. - La questione, sollevata dalle due ordinanze di rimessione, in riferimento all’art. 2 Cost., deve essere dichiarata inammissibile, perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata (ex plurimis: ordinanze n. 243 del 2009, n. 316 del 2008, n. 185 del 2007, n. 463 del 2002).
6. - Le dette ordinanze muovono entrambe dal presupposto che l’istituto del matrimonio civile, come previsto nel vigente ordinamento italiano, si riferisce soltanto all’unione stabile tra un uomo e una donna. Questo dato emerge non soltanto dalle norme censurate, ma anche dalla disciplina della filiazione legittima (artt. 231 e ss. cod. civ. e, con particolare riguardo all’azione di disconoscimento, artt. 235, 244 e ss. dello stesso codice), e da altre norme, tra le quali, a titolo di esempio, si può menzionare l’art. 5, primo e secondo comma, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nonché dalla normativa in materia di ordinamento dello stato civile.
In sostanza, l’intera disciplina dell’istituto, contenuta nel codice civile e nella legislazione speciale, postula la diversità di sesso dei coniugi, nel quadro di «una consolidata ed ultramillenaria nozione di matrimonio», come rileva l’ordinanza del Tribunale veneziano.
Nello stesso senso è la dottrina, in maggioranza orientata a ritenere che l’identità di sesso sia causa d’inesistenza del matrimonio, anche se una parte parla di invalidità. La rara giurisprudenza di legittimità, che (peraltro, come obiter dicta) si è occupata della questione, ha considerato la diversità di sesso dei coniugi tra i requisiti minimi indispensabili per ravvisare l’esistenza del matrimonio (Corte di cassazione, sentenze n. 7877 del 2000, n. 1304 del 1990 e n. 1808 del 1976).
7. - Ferme le considerazioni che precedono, si deve dunque stabilire se il parametro costituzionale evocato dai rimettenti imponga di pervenire ad una declaratoria d’illegittimità della normativa censurata (con eventuale applicazione dell’art. 27, ultima parte, della legge 11 marzo 1953, n. 87 – Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), estendendo alle unioni omosessuali la disciplina del matrimonio civile, in guisa da colmare il vuoto conseguente al fatto che il legislatore non si è posto il problema del matrimonio omosessuale.
8. - L’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri.
Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia – possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l’esame, anche non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate.
Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni (come è avvenuto per le convivenze more uxorio: sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988). Può accadere, infatti, che, in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza.
9. - La questione sollevata con riferimento ai parametri individuati negli artt. 3 e 29 Cost. non è fondata.
Occorre prendere le mosse, per ragioni di ordine logico, da quest’ultima disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», e nel secondo comma aggiunge che «Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare».
La norma, che ha dato luogo ad un vivace confronto dottrinale tuttora aperto, pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita “società naturale” (con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere).
Ciò posto, è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei princìpi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata.
Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l’art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un’articolata disciplina nell’ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale.
Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa.
Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto.
Non è casuale, del resto, che la Carta costituzionale, dopo aver trattato del matrimonio, abbia ritenuto necessario occuparsi della tutela dei figli (art. 30), assicurando parità di trattamento anche a quelli nati fuori dal matrimonio, sia pur compatibilmente con i membri della famiglia legittima. La giusta e doverosa tutela, garantita ai figli naturali, nulla toglie al rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio che vale a differenziarlo dall’unione omosessuale.
In questo quadro, con riferimento all’art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio.
Il richiamo, contenuto nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia, alla legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), non è pertinente.
La normativa ora citata – sottoposta a scrutinio da questa Corte che, con sentenza n. 161 del 1985, dichiarò inammissibili o non fondate le questioni di legittimità costituzionale all’epoca promosse – prevede la rettificazione dell’attribuzione di sesso in forza di sentenza del tribunale, passata in giudicato, che attribuisca ad una persona un sesso diverso da quello enunciato dall’atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali (art. 1).
Come si vede, si tratta di una condizione del tutto differente da quella omosessuale e, perciò, inidonea a fungere da tertium comparationis. Nel transessuale, infatti, l’esigenza fondamentale da soddisfare è quella di far coincidere il soma con la psiche ed a questo effetto è indispensabile, di regola, l’intervento chirurgico che, con la conseguente rettificazione anagrafica, riesce in genere a realizzare tale coincidenza (sentenza n. 161 del 1985, punto tre del Considerato in diritto). La persona è ammessa al matrimonio per l’avvenuto intervento di modificazione del sesso, autorizzato dal tribunale. Il riconoscimento del diritto di sposarsi a coloro che hanno cambiato sesso, quindi, costituisce semmai un argomento per confermare il carattere eterosessuale del matrimonio, quale previsto nel vigente ordinamento.
10. - Resta da esaminare il parametro riferito all’art. 117, primo comma, Cost. (prospettato soltanto nell’ordinanza del Tribunale di Venezia).
Il rimettente in primo luogo evoca, quali norme interposte, gli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), 12 (diritto al matrimonio) e 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952); pone l’accento su una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in causa C. Goodwin c. Regno Unito, 11 luglio 2002), che dichiarò contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del transessuale (dopo l’operazione) con persona del suo stesso sesso originario, sostenendo l’analogia della fattispecie con quella del matrimonio omosessuale; evoca altresì la Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e, in particolare, l’art. 7 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), l’art. 9 (diritto a sposarsi ed a costituire una famiglia), l’art. 21 (diritto a non essere discriminati); menziona varie risoluzioni delle Istituzioni europee, «che da tempo invitano gli Stati a rimuovere gli ostacoli che si frappongono al matrimonio di coppie omosessuali ovvero al riconoscimento di istituti giuridici equivalenti»; infine, segnala che nell’ordinamento di molti Stati, aventi civiltà giuridica affine a quella italiana, si sta delineando una nozione di relazioni familiari tale da includere le coppie omosessuali.
Ciò posto, si deve osservare che: a) il richiamo alla citata sentenza della Corte europea non è pertinente, perché essa riguarda una fattispecie, disciplinata dal diritto inglese, concernente il caso di un transessuale che, dopo l’operazione, avendo acquisito caratteri femminili (sentenza cit., punti 12-13) aveva avviato una relazione con un uomo, col quale però non poteva sposarsi «perché la legge l’ha considerata come uomo» (punto 95). Tale fattispecie, nel diritto italiano, avrebbe trovato disciplina e soluzione nell’ambito della legge n. 164 del 1982. E, comunque, già si è notato che le posizioni dei transessuali e degli omosessuali non sono omogenee (v. precedente paragrafo 9); b) sia gli artt. 8 e 14 della CEDU, sia gli artt. 7 e 21 della Carta di Nizza contengono disposizioni a carattere generale in ordine al diritto al rispetto della vita privata e familiare e al divieto di discriminazione, peraltro in larga parte analoghe. Invece gli articoli 12 della CEDU e 9 della Carta di Nizza prevedono specificamente il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. Per il principio di specialità, dunque, sono queste ultime le norme cui occorre fare riferimento nel caso in esame.
Orbene, l’art. 12 dispone che «Uomini e donne in età maritale hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto».
A sua volta l’art. 9 stabilisce che «Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio».
In ordine a quest’ultima disposizione va premesso che la Carta di Nizza è stata recepita dal Trattato di Lisbona, modificativo del Trattato sull’Unione europea e del Trattato che istituisce la Comunità europea, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Infatti, il nuovo testo dell’art. 6, comma 1, del Trattato sull’Unione europea, introdotto dal Trattato di Lisbona, prevede che «1. L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i princìpi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati».
Non occorre, ai fini del presente giudizio, affrontare i problemi che l’entrata in vigore del Trattato pone nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione e degli ordinamenti nazionali, specialmente con riguardo all’art. 51 della Carta, che ne disciplina l’ambito di applicazione. Ai fini della presente pronuncia si deve rilevare che l’art. 9 della Carta (come, del resto, l’art. 12 della CEDU), nell’affermare il diritto di sposarsi rinvia alle leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio. Si deve aggiungere che le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, elaborate sotto l’autorità del praesidium della Convenzione che l’aveva redatta (e che, pur non avendo status di legge, rappresentano un indubbio strumento di interpretazione), con riferimento al detto art. 9 chiariscono (tra l’altro) che «L’articolo non vieta né impone la concessione dello status matrimoniale a unioni tra persone dello stesso sesso».
Pertanto, a parte il riferimento esplicito agli uomini ed alle donne, è comunque decisivo il rilievo che anche la citata normativa non impone la piena equiparazione alle unioni omosessuali delle regole previste per le unioni matrimoniali tra uomo e donna.
Ancora una volta, con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento.
Ulteriore riscontro di ciò si desume, come già si è accennato, dall’esame delle scelte e delle soluzioni adottate da numerosi Paesi che hanno introdotto, in alcuni casi, una vera e propria estensione alle unioni omosessuali della disciplina prevista per il matrimonio civile oppure, più frequentemente, forme di tutela molto differenziate e che vanno, dalla tendenziale assimilabilità al matrimonio delle dette unioni, fino alla chiara distinzione, sul piano degli effetti, rispetto allo stesso.
Sulla base delle suddette considerazioni si deve pervenire ad una declaratoria d’inammissibilità della questione proposta dai rimettenti, con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi:
a) dichiara inammissibile, in riferimento agli articoli 2 e 117, primo comma, della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale degli articoli 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte di appello di Trento con le ordinanze indicate in epigrafe;
b) dichiara non fondata, in riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione la questione di legittimità costituzionale degli articoli sopra indicati del codice civile sollevata dal Tribunale di Venezia e dalla Corte di appello di Trento con le medesime ordinanze.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2010.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
Allegato:
ordinanza letta all’udienza del 23 marzo 2010
ORDINANZA
Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale introdotto con ordinanza della Corte di appello di Trento depositata il 29 luglio 2009 (n. 248 R.O. del 2009);
rilevato che in tale giudizio è intervenuta l’Associazione Radicale Certi Diritti, in persona del Segretario e legale rappresentante p.t., con atto depositato il 3 novembre 2009;
che nel medesimo giudizio sono intervenuti, con atto depositato il 25 febbraio 2010, i signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z., tutti di sesso maschile;
che né l’Associazione Radicale, né i signori di cui all’intervento in data 25 febbraio 2010 sono stati parti nel giudizio a quo;
che, per costante giurisprudenza di questa Corte, sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale (oltre al Presidente del Consiglio dei Ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale), le sole parti del giudizio principale, mentre l’intervento di soggetti estranei a questo è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis: ordinanza letta all’udienza del 31 marzo 2009, confermata con sentenza n. 151 del 2009; sentenze n. 94 del 2009, n. 96 del 2008, n. 245 del 2007; ordinanza n. 414 del 2007);
che l’ammissibilità dell’intervento ad opera di un terzo, titolare di un interesse soltanto analogo a quello dedotto nel giudizio principale contrasterebbe con il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto l’accesso delle parti a detto giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo;
che, pertanto, sia l’intervento dell’Associazione Radicale Certi Diritti sia quello spiegato con l’atto depositato il 25 febbraio 2010 devono essere dichiarati inammissibili, indipendentemente dal carattere tardivo di quest’ultimo (ordinanza n. 119 del 2008).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili gli interventi dell’Associazione Radicale Certi Diritti e dei signori C. M. e G. V., P. G. B. e C. G. R., R. F. R. P. C. e R. Z.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente