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venerdì 16 luglio 2010

Quello che i gay non dicono - Proposte per una ridefinizione del linguaggio delle persone GLBT di Dario Accolla





In principio era il verbo. Così recitano i testi sacri. E in molti non sanno che quando sulla Bibbia leggiamo che Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza ci troviamo semplicemente di fronte all’evidenza che ciò che lega divinità e umanità, almeno agli occhi della cultura che ha prodotto quel mito, è l’uso creatore della parola. Dio fece il mondo in sette giorni, semplicemente “dicendolo”. Poi chiamò Adamo, anche se questi avrebbe dimostrato a poco di non essere poi tanto sveglio, e gli diede il potere di nominare tutte le cose create. Se noi diamo un nome alle cose, noi dominiamo le cose stesse.

Faccio questa premessa per riagganciarmi all’intervista che Pasquale Quaranta, persona ottima che ho avuto il piacere di conoscere e di cui apprezzo impegno e pacatezza, ha fatto a Tullio De Mauro, a margine del convegno “Pensiero e parole. Come il linguaggio condiziona la vita delle persone”. Nel rimandarvi alla lettura del pezzo in questione, non posso fare a meno di notare che le parole di uno dei più grandi linguisti viventi vertono su almeno tre questioni fondamentali:

1. il legame tra le richieste del movimento GLBT con il dettato costituzionale;

2. l’indeterminatezza semantica delle parole che usiamo per definirci;

3. la dispersione linguistica di cui siamo capaci nel proporre le nostre rivendicazioni alla società a cui ci rivolgiamo.

Questo complesso di cose fa il gioco di chi immette nella quotidianità di chi ascolta tutta una serie di falsità nei nostri confronti, anche seguendo quella graziosa strategia di «adoperare in modo improprio certe formule, persino dire cose esatte ma fuori contesto.» L’aspetto più evidente di questa pratica la troviamo sui giornali. Basta leggere di questo o quel politico che “è andato a trans”, magari pagandole in qualche party esclusivo a base di cocaina. Il tutto descritto in articoli dove il termine trans diventa, per estensione, sinonimo di prostituta. Con un doppio effetto di criminalizzazione non solo delle persone transessuali, che andrebbero viste come persone tout court, ma anche delle prostitute (che sarebbero comunque persone, per chi non se ne fosse ancora accorto).

Il convegno citato parlava proprio di questo. Come un certo uso del linguaggio può cambiare la vita delle persone. Ma ritorniamo all’intervista e ai punti nodali che mette in luce.

Il primo: il legame tra le nostre lotte con la Costituzione. Esiste un articolo, il terzo, in cui si parla di rispetto dell’individuo a prescindere dell’appartenenza al sesso – che per De Mauro diviene sineddoche del termine sessualità – e che, aggiungo io, riporta anche un esplicito riferimento alle condizioni personali. Battere su questo tasto mi sembra un buon viatico per trovare un solido punto d’appoggio dentro la fonte di tutto il diritto che dovrebbe regolare le nostre vite. Possibilmente per renderle più felici. In questo, credo, potremmo prendere, un po’ tutti, lezioni da Certi Diritti. Le ragioni, credo, sono abbastanza evidenti.

Poi: la questione della sigla GLBT che in molti adesso hanno riconvertito in LGBTQI con tutte le varianti possibili sull’ordine delle lettere. La mia domanda, arrivati a tal punto, è: serve una sigla incomprensibile ai più? Non si potrebbe sostituire tutto con una parola soltanto? Io avrei due proposte: chiamare il movimento semplicemente come “Movimento gay” dove gay sta per acronimo di good as you (buono come te). Sigla che, se intesa in questo modo, potrebbe essere indicativa di tutte le realtà. Oppure si potrebbe sostituire con un’altra parola italiana: arcobaleno. Il Movimento arcobaleno. In questo secondo caso occorrerebbe fare un maggior lavoro di comunicazione per far capire cosa si è e per cosa si lotta. Ovviamente sto parlando di un biglietto da visita. All’interno del movimento tutte le realtà avrebbero il diritto di autodefinirsi nel modo ritenuto più consono.

Quindi: tanto per essere del tutto impopolare, tacerò sull’uso dell’asterisco, che reputo solo un puntiglio ideologico che non fa altro che abbruttire il testo, a discapito molto spesso della sua effettiva comprensione.

Ancora: avviare campagne di informazione. Abbiamo un movimento che conta centinaia di sigle e siglette. Le associazioni vengono fuori come funghi dopo la pioggia ma mi pare che questo proliferare di nomi e acronimi non abbia al momento – e parlo dei risultati delle pratiche politiche nel territorio di tali realtà – reso le idee più chiare a chi non è del settore. Tradotto: c’è tanta gente nell’associazionismo ma poco dialogo tra questo e la società. Dialogo di base. Basta aprire una pagina qualsiasi del Corriere della Sera per vedere che le transessuali FtoM vengono chiamate “i trans”. Termine che per molti include, se vogliamo, anche travestiti e gli stessi omosessuali maschi. E via discorrendo. Occorre avviare, perciò, progetti di comunicazione, spiegare, a partire dalle scuole (ma anche dentro altre associazioni, sindacati e partiti), la complessità che sta dietro a un’intera gamma di fenomeni legati al modo che si ha di vivere non solo la propria sessualità, ma anche il proprio universo emotivo, affettivo e amoroso. Tutto questo ha più di un nome. Diciamolo allora.

Infine: serve tutto questo inglese? Lungi da me ogni volontà puristica, ma ritorniamo un attimo alla premessa di questo mio post. Dio crea dicendo le cose. E le dice parlando. Noi ci siamo limitati a usare dei prestiti linguistici senza sentire la necessità di trovare una definizione che sia specifica della realtà culturale e antropica in cui viviamo. Penso che questo sia riduttivo. Mi si dirà che ho proposto di chiamare tutto il movimento come Movimento gay. Ma ho anche detto che non sono purista e che le mie perplessità sono sull’uso imperante di un codice straniero, non ho mai proposto la sua totale eliminazione. Sto dicendo altro: siamo dotati di ingegno e fantasia. Usiamoli.

Concludo ricordando che sarebbe opportuno creare cultura attorno alle parole che noi utilizziamo, capire quegli intimi processi che ci portano a usare il linguaggio, tra di noi, a definirci, a ridefinirci, a determinare i confini di realtà, di pratiche, di idee che ci uniscono o che, come spesso è accaduto negli ultimi anni, ci hanno diviso. Penso che avremmo tutti e tutte molto da imparare.

Se noi diamo un nome alle cose, noi dominiamo le cose stesse. Di questo se ne erano resi conto gli ebrei, quando scrissero la Bibbia, migliaia di anni fa. Sarebbe ora che ce ne accorgessimo anche noi.

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